Modena, La Tenda.
Nonostante le formazioni esibitesi alla Tenda di Modena rappresentino sonorità non troppo abituali per me, la serata in questione è stata un’ottima chance per tastare il polso a un underground in fermento e in grado di suscitare interesse da molteplici punti di vista.
Paradossalmente colpevole di essermi perso i giovani e promettentissimi Sunpocrisy quando erano di passaggio dalle mie parti per uno show coi milanesi Rise Above Dead, non potevo che rispondere con entusiasmo a un appello che, a costo zero (ci tengo a sottolineare che ogni concerto offerto dal locale in questione è gratis), mi permetteva di vederli schierati accanto a nomi come Ornaments e The Secret.
Partiti pronti a ogni evenienza, ci fiondiamo a Modena tanto solerti da risultare in anticipo. Certo, essere tra i primi ci fa onore, ma è una serata dannatamente gelida e i nostri bronchi si ricorderanno dell’avvenimento. Superata però la noiosa attesa, non resta che abbandonarsi al calore del locale manco fosse un igloo. La struttura in questione è particolare, ma ad assorbire le mie attenzioni è il timore di una scarsa affluenza. Per fortuna, questa paura sarà velocemente dissipata, Bologna è vicina e siamo solo all’inizio di tutto e, come avremo modo di verificare, i volti non tarderanno a moltiplicarsi.
La moltiplicazione di cui parliamo, per la felicità di chi deve suonare, avviene proprio mentre il ghiaccio secco utilizzato dai Sunpocrisy inizia a saturare l’atmosfera. Il rumore di fondo, come da copione, annuncia l’entrata in scena della band tramite la doppietta “Apoptosis” – “Apophenia”, opener del palindromo Samaroid Dioramas e apertura di un’esibizione che si preannuncia “impegnata” anche dal punto di vista scenico. Quello che i sei bresciani propongono è dunque un andamento completamente speculare al disco d’esordio, con la missione di risultare ancora più massicci e coinvolgenti di quanto già l’ottimo lavoro in studio aveva mostrato d’essere. Il suono dal vivo è meno asciutto, decisamente più compatto e profondo. Ciò che i musicisti cercano, al di là della più fedele riproposizione possibile, è un impatto in grado di assorbire e catapultare il pubblico in quello che è il quadro narrativo dell’opera stessa. L’utilizzo di un’azzeccata visual performance sulla scia del concept esposto, poi, sembra riuscire nell’intento di calamitare una platea già schiava delle contorsioni ritmiche della band. Sempre in bilico tra le più varie sfumature accomunate sotto l’ala del “post-”, il concerto viene però sporcato da uno studio dei suoni non adeguato alle diciotto corde delle chitarre al lavoro. Questo, per fortuna, non grava troppo su una vitalità che non fa altro che confermare quanto di buono speravo di trovare a un concerto dei Sunpocrisy. Messi su un palco a fianco di qualcuno tra i più blasonati e leccati gruppi math del momento, sono sicuro che non sfigurerebbero. Anzi.
Dopo una boccata d’aria, e ripreso il posto occupato prima, non resta che attendere gli Ornaments. Che dire? Sono un’altra tra le tante band che aspettavo di saggiare dal vivo, e il fatto d’incontrarli in una serata del genere mi rende ancora più fiducioso. Forti dell’uscita di Pneumologic e di uno status ormai consolidato tra gli affezionati alle tinte più fosche del post-metal nostrano, sono, a mio parere e indipendentemente della posizione assegnatagli sul palco, il piatto forte della serata. Sarà che ho grosse aspettative a riguardo e che la curiosità riservata era tutta per loro e i Sunpocrisy, ma non vedo l’ora di assaggiare le prime note rilasciate dagli amplificatori. Ed eccole.
L’inizio di “Aer” risulta un’efficace e puntuale panacea spirituale. I Sunpocrisy sono stati penalizzati a livello di suoni, gli Ornaments ottengono invece un risultato ormai insperato: tutto funziona e ciò che mi trovo ad ascoltare mi immerge in quelle paludi che immaginavo. Per un lasso di tempo che mi sembrerà breve, mi trovo trasportato in un costante crescendo di alti e bassi, dilatazioni e riprese e stoccate sonore degne della fama che il gruppo ha acquisito con merito. Al termine del loro set mi trovo a chiederne mentalmente ancora e, se non è questo un sintomo del loro successo, non so quale altro possa essere considerato tale. E, come ogni tanto accade, mi trovo a pensare che, se fossero una band d’oltreoceano, avrebbero tutt’altro seguito. Mi augro di rivederli il prima possibile.
Nel riprendermi dall’eccitante episodio Ornaments, ho il tempo di celebrare il solito rito del vinile, composto più da fameliche occhiate che da reali acquisti; ma va bene così, perché è forse più divertente desiderare che ottenere. Il problema è che nell’incanto e nella curiosità faccio davvero fatica a intendere quel “Noi discendiamo da una ininterrotta catena di…” che avrebbe dovuto condurmi al palco per vedere i triestini. Ritardo. Ma non troppo. Pur essendo Agnus Dei un disco atteso e fagocitato, non ho onestamente avuto modo di apprezzarlo del tutto. Al di là dei motivi tecnici e/o di gusto musicale per i quali mi trovo a scrivere questo, sono felice di vedere per l’ennesima volta la band sotto Southern Lord. È un live all’insegna dei pezzi del più recente lavoro, come al solito tirati per i capelli e in questo caso addirittura più dilatati. Dal vivo, il nuovo disco si propone come una mina, l’esecuzione è graffiante ma precisa, anche se la band non sembra troppo coinvolta dall’atmosfera. Per mia fortuna, non mancano alcune delle bordate che mi fecero apprezzare il precedente Solve Et Coagula: lo stile è sempre quello che li ha contraddistinti, e ascoltare pezzi come “Antitalian” (per esempio) non può che farmi contento. Accelerazioni al vetriolo sporcate da una vagonata di distorsioni. La loro ormai fissa presenza sull’orizzonte live di certo non sminuisce lo svago, ma non posso proprio parlare di fattore-sorpresa. Che ci sia bello o cattivo tempo, la breve setlist funziona come al solito a dovere e, una volta terminate le altissime urla di Coslovich, possiamo davvero dichiarare chiuse le danze. E almeno per questa sera tornare a casa soddisfatti.
Per tirare le somme di quanto accaduto, sono davvero contento della fotografia che mi è stato concesso di scattare. Vedere tre ottime band sullo stesso palco non è cosa da poco, specie quando il concerto viene di fatto offerto da un’amministrazione in grado di proporre l’evento senza trovarsi a chiedere contributi agli astanti. E non è una questione di soldi, la vedo più come un’occasione per riflettere sulle dinamiche di distribuzione di un’arte, la musica, che prima fra tutte ha il privilegio di entrare sottopelle a chiunque ne fruisca.
Grazie ad Andrea Bassoli per le foto.
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