The Tree of Life di Terrence Malick. Rai 5, ore 21,15.
Il film più bello, il più importante, il più influente degli ultimi anni insieme a The Master di Paul Thomas Anderson. Ripubblico la recensione scritta a suo tempo all’uscita del film.
The Tree of Life, regia di Terrence Malick. Con Brad Pitt, Sean Penn, Jessica Chastain, Hunter McCracken, Fiona Shaw, Joanna Going. Vincitore a Cannes 2011.
Com’è possibile che un film di tale bellezza sia diventato il più sbeffeggiato e maltrattato (dal pubblico, dai critici) degli ultimi tempi? Per fortuna De Niro ha avuto il buonsenso di dargli a Cannes la Palma d’oro. Voto 9 e mezzoMa l’hai visto? Ma ti è piaciuto? Davvero ti è piaciuto? Dài, non ci posso credere. E questa schifezza l’hanno premiata a Cannes? De Niro si deve essere bevuto il cervello, ecco, bevuto il cervello.
Frammenti di conversazione captati a proposito di The Tree of Life. Una chiacchiera infinita, perlopiù demolitiva e negativa, avvolge il film più controverso degli ultimi anni, chiacchiera che non si arresta nemmeno a distanza di settimane, ormai, dalla sua uscita e dalla vittoria della Palma d’oro a Cannes. Quasi tutti l’hanno detestato (“pretenzioso” è il commento più benevolo), eppure misteriosamente tutti sentono il bisogno di parlarne pur sparlandone. Non c’è happy hour, cena, pausa alla macchinetta del caffè in cui prima o poi non si finisca a parlare di Malick e del suo film. Segno che TToL va giù giù nel profondo e, se non commuove e non piace, di sicuro smuove. Sono pochi a difenderlo, la gran parte lo attacca forsennatamente, con un accanimento perfino sospetto, e quando il tenutario del presente blog dichiara di averlo apprezzato, anzi amato senza riserve, le reazioni si dividono disegualmente tra compatimento (la maggioranza) e sbalordimento (gli altri).
Bene: io non capisco, non capisco proprio lo strano caso di questo film grandissimo e assoluto la cui statura non viene riconosciuta, e che anzi è sbeffeggiato dai più. Che si sia persa la capacità di distinguere e di vedere? Durante la recente maratona milanese Cannes e dintorni (qualche film dal concorso del festival, molti catapultati dalla Quinzaine, più qualche arrivo dal Bergamo Film Meeting) tendevo quando possibile l’orecchio per captare i commenti dei miei vicini di poltrona, commenti perlopiù improntati a un’arroganza intellettuale del tutto ingiustificata e fuori luogo, e mi è capitato di sentire su Malick cose rabbrividenti. Oltretutto da parte di gente che non esitava a dichiararsi entusiasta di piccoli, medio-mediocri film quali Le donne del sesto piano o, peggio, di orrori come La source des femmes di Radu Mihaileanu, il più brutto titolo visto nell’intera rassegna, che pure di titoli brutti non è stata parca. Dico, vogliamo scherzare? Buttiamo fango su The Tree of Life e poi ci sdilinquiamo per filmastri che non valgono un suo fotogramma che è uno? Tengo a freno l’indignazione e cerco, pacatamente, di capire, di spiegarmi, la stravaganza di questo mirabile film che non è piaciuto quasi a nessuno, almeno in Italia, dove la critica ha storto il naso imbarazzata anticipando e forse influenzando le reazioni del pubblico (altra cosa negli Stati Uniti, dove The Tree of Life ha ottenuto su Rotten Tomatoes un gradimento, altissimo, dell’86% e recensioni in gran parte positive)
In effetti, Malick nel suo capolavoro (sì, gente, capolavoro senza se e senza ma) fa di tutto per farsi e farci del male, rifiuta ogni ruffianaggine e paraculaggine, sceglie la strada più impervia, sempre. Ci sfianca, ci imbarazza, ci turba, ci fa arrabbiare forte, ci pone di fronte a ostacoli (quasi) invalicabili, obbligandoci a una specie di percorso iniziatico che intende saggiare e mettere alla prova la nostra volontà e disponibilità. Quella citazione iniziale, con il suo richiamo alla Natura e alla Grazia, così esplicitamente alta, così spudoratamente arty, così esibizionisticamente intellettualistica, non può non farci arrabbiare e predisporre negativamente alla visione di quello che poi verrà. Con lo sfoggio di cultura e filosofia non si sono mai fatti buoni film e nemmeno buoni romanzi. Bastasse questo. Perché poi l’autore, anzi l’Autore, osa raccontarci la storia abbastanza media e abbastanza qualunque di una famigliola nel Texas anni Cinquanta (in tutta evidenza molto, molto autobiografica) accoppiandola e ponendola in parallelo chissà perché con la Storia, nientemeno!, che del Cosmo e di questo mondo qua sul quale viviamo e appoggiamo i piedi, il globo terracqueo, Storia messa in scena praticamente dal big bang o altro evento equivalente in giù. Così le schermaglie prevedibilmente edipiche tra un papà severo e militaresco (un Brad Pitt mai così bravo e in parte, che rifà le icone maschili della Hollywood Fifties come John Wayne, Gary Cooper, Gregory Peck) e i suoi tre figlioletti tutti maschi, soprattutto con il più grande, si dipanano in alternanza – o intervallate proprio nel senso dei vecchi intervalli della Rai in bianco e nero con le loro immagini cartolinesche e paesaggistiche e naturalistiche – a sequenze di acque, alghe, meduse, pesci martello, nembi e fulmini e boati, pianeti e macchie solari e eclissi e dinosauri. Tutto un repertorio pierangelesco o Discovery Channel-National Geographic spesso pericolosamente vicino al kitsch ma spesso, anche, di magnificenza e bellezza vertiginose. Ed è lì che lo spettatore unico (come il pensiero unico, il giornalista unico), quello forgiato dalle recensioni medie e mainstream e ovvie dei maggiori quotidiani, comincia ad allarmarsi, a chiedersi cosa mai vorrà dire questa o quella cosa, e insomma precipita in una sindrome da ditemi-qual-è-il senso/qual-è-il-significato da cineforum parrocchiale anni Sessanta (e pure da cineforum di oggigiorno: ce ne sono, ce ne sono). Siccome la risposta non c’è, e Malick ci depista in continuazione con la sua storia della Natura e della Grazia, lo spettatore unico sbanda, resta senza appigli, affoga e alla fine non può che opporre il rifiuto e il rigetto.
L’equivoco sta tutto lì, nel prendere sul serio i Grandi Dilemmi che il Grande Autore proclama di mettere in scena. Invece, bisogna andare oltre Malick, o meglio, oltre quello che Malick esplicitamente ci dice e mostra. Non bisogna prenderlo sul serio quando ci suggerisce che tra ontogenesi (sviluppo dell’individuo) e filogenesi (l’evoluzione della e delle specie) esistono affinità e parallelismi e isomorfismi, visione peraltro che era anche un cavallo di battaglia del pensiero freudiano. Non bisogna seguirlo e fidarsi di lui quando cala le sue visioni filosofiche nel racconto della sua famiglia texana ove il padre sarebbe la Natura e la madre la Grazia (ma quando mai? ma perché? che teoria filosofica sarebbe mai questa? l’unico film che io ricordi che sia riuscito a parlare della Grazia senza cadere nel ridicolo è La mia notte con Maud di Eric Rohmer, una meraviglia, e Malick non ripete il miracolo perché di Rohmer non ha la soavità e la leggerezza, anche se possiede molte altre qualità e skills). Macchè. The Tree of Life va preso e visto per quello che è, vale a dire cinema, cinema e ancora cinema. TToL è grande cinema, semplicemente, che importano il pensiero e la visione del mondo del suo regista? Importano le immagini, il loro flusso, il modo con cui si incatenano e incastrano, e ci incastrano e catturano e ipnotizzano. Operazione che a Malick riesce in modo sublime. Questo è un film girato con una maestria come poche volte s’è visto. Non riesco a capire come si possa non restare folgorati dalla sua bellezza: Malick riprende, avvolge i suoi personaggi registrandone e comunicandocene ogni battito di ciglia, ogni respiro, ogni minimo fremere del corpo e dell’anima. Non sono tanto le visione cosmiche a ipnotizzarci, sono le scene quotidiane di quel padre, di quella madre, di quei tre figli, sono lo smarrimento e il turbamento del maggior dei figli che diventerà architetto di successo e però non saprà mai riconciliarsi con la vita e se stesso (Sean Penn, che è poco più di un’apparizione). Malick filma i volti e i gesti, e gli ambienti, come a pochi è riuscito e trasforma un dettaglio in qualcosa di smisurato e maestoso che riempie lo schermo e l’occhio di chi guarda. Quello che è sbalorditivo è come filma il quasi nulla, la semplice traversata di una strada dei tre bambini che imitano e sbeffeggiano un povero sciancato, trasmutando quei pochi secondi in uno sconsolato ma indelebile spettacolo della miseria e della crudeltà umana, e anche dell’innocenza. O come, ancora, filma un qualsiasi campo giochi, partendo dal giardino di casa e allargando man mano l’inquadratura fino a comprendere decine di bambini che si muovono come api impazzite in un alveare e facendone subito l’immagine del caos del mondo. Davvero, non ricordo, non riesco a ricordare un film che assomigli a questo, con la stessa capacità di sublimare e trasfigurare il semplice e perfino il banale in pura metafisica: nemmeno dello stesso Malick, che qui arriva al suo vertice di sempre.
Smettendo di farsi troppe domande, e abbandonandosi alla pura visione, ci si renderà conto di come ci sia una connessione tra le due narrazioni, quella cosmica e il lessico famigliare, che non è contenutistica come lo stesso Malick ci fa credere ma più celata, segreta, che ha a che fare con la forza del simbolico e, ancora di più, con il ritmo del racconto. Man mano che The Tree of Life procede e ci si immerge nella sua materia narrativa, ci rendiamo conto di come gli umani vengano filmati come pesci martello e i pesci martello come umani, i capelli della madre e dei figli come alghe e le alghe come capelli, gli scoppi d’ira come eruzioni vulcaniche e viceversa, e tutto trasmuta in tutto seguendo lo stesso ritmo naturale profondo. Malick man mano dissolve ogni confine tra natura e cultura, tra umano e non umano, catturando e comunicandoci non quello che li divide, ma quello che misteriosamente li unisce. Non so cosa voglia dire filosoficamente tutto questo, e non mi importa, mi importa solo che sia uno spettacolo grandioso e puro cinema.
Si è scritto che Malick abbia guardato al kubrickiano Odissea nello spazio, cercando di replicarne l’ambizione di raccontare l’intreccio di destini umani e dell’universo, e il fatto che sia ricorso per gli effetti speciali proprio a Douglas Trumbull che di Kubrick fu il collaboratore per quel film epocale, avvalora l’ipotesi. Ma credo si tratti di un ulteriore depistaggio da parte del regista, le analogie con Odissea nello spazio essendo del tutto esteriori. Laddove Kubrick titaneggia ed epicizza (è uno dei registi naturalmente più epici che il cinema ci abbia dato), Malick invece riduce al minimo, al quotidiano, all’umano e al sub-umano. Kubrick si lancia nella vertigine dello spazio-tempo, muove in verticale e verso l’alto. Malick racconta il qui e ora e addomestica e quotidianizza anche il big bang, e va giù negli abissi dell’anima e del mondo. In The Tree of Life tutto è fluido, ogni elemento trasmuta in qualcos’altro incessantemente, non c’è cesura tra le immagini, tutto si tiene come in una partitura musicale mai interrotta, Odissea nello spazio è invece magniloquente e procede per blocchi narrativi granitici giustapposti. Visioni del cinema assai diverse. Malick, per ottenere quella fluidità, ha lavorato in modo estenuante sul montaggio, chiamando ben cinque specialisti dell’editing. Una fatica enorme, però il risultato è sensazionale, l’intero film ci sembra come girato in un acquario o in un abisso oceanico, è un film liquido e di liquidi, e anche questo ne stabilisce la differenza e la statura rispetto agli altri. Se c’è un autore cui questo film e questo Malick possano essere accostati, è Tarkovsky. Uguale il senso della natura e del soprannaturale, uguale il senso del sacro e del religioso. Date un’occhiata alla sequenza iniziale di Solaris, con quei fili d’erba che si muovono nell’acqua, e ditemi se non è già puro Malick, puro The Tree of Life.
Magazine Cinema
THE TREE OF LIFE di Terrence Malick stasera in tv. Capolavoro! (mart. 16 giu. 2015)
Creato il 16 giugno 2015 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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