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The Tree of Life (Terrence Malick) ★★★/4

Creato il 02 giugno 2011 da Eda

The Tree of Life (Terrence Malick) ★★★/4The Tree of Life, USA, GB, India, 2011, 150 min.

Il cinema di Terrence Malick (La sottile linea rossa, The New World) è uno di quelli riconoscibili da poche inquadrature, sia esso ambientato durante la guerra, la scoperta dell’America o alle prese con la tipica famiglia middle class nell’America degli anni Cinquanta. Frammenti di immagini e frammenti di vita che diventano unità non omogenee di tempo e spazio che cercano di trovare un centro di gravità permanente laddove è impossibile trovarlo. Si procede per brevi episodi, in maniera ondivaga, per delineare l’elaborazione di un lutto, il rapporto padre-figlio, l’importanza della memoria, un “romanzo” di formazione, per elaborare il conflitto tra la via della Grazia, pura e altruista, e la via della Natura, dura ed egoista, senza però essere necessariamente nulla di tutto ciò, sempre perchè un vero fulcro non esiste.

Terrence Malick è un regista libero e liberato da tutte le logiche commerciali e di marketing, tanto da raggiungere in alcuni casi quasi livelli di infantilismo, come la sua decisione di non rilasciare interviste da oltre 30 anni o quella di rinunciare a ritirare di persona la Palma d’Oro assegnatagli a Cannes quest’anno e, di fatto, quando questi suoi film-mondo falliranno al box-office, state pur certi che i grandi produttori lo lasceranno a piedi. Malick comunque mantiene salda la sua coerenza, è al quinto lungometraggio dal 1974 e si prende tutto il tempo necessario per realizzarne uno. Il suo stile registico è assolutamente originale ed è facile per lo spettatore riconoscerlo superficialmente dall’uso di grandangoli e riprese dal basso, dall’attenzione rivolta più ai particolari (che diventano poi il Tutto) che ai personaggi, dalla predilezione della voce over sui dialoghi, dall’uso straordinario degli effetti sonori. The Tree of Life ha in sè tutto questo e tenta di andare anche oltre, essendo probabilmente il suo film più ambizioso, ma non per questo il più riuscito, che eleva all’ennesima potenza le sue caratteristiche distintive tentando il contatto con…l’Assoluto. Lo fa, tra le altre cose, giocandosi una carta che in pochi avrebbero avuto il coraggio di provare e ancora meno registi sarebbero riusciti ad usare senza risultare ridicoli. Nella prima parte di pellicola, al colmo del dolore dei genitori per la perdita di un loro figlio, Malick inserisce una mezz’ora di immagini di una bellezza stordente che c’entrano tutto e niente: l’origine dell’universo, galassie in formazione, imponenti eventi naturali, microorganismi, mitosi delle cellule e…dinosauri, il tutto accompagnato dalla Lacrimosa di Mozart, straordinariamente coinvolgente e toccante.

Malick fa cinema “elitario”, non per tutti, se ne frega di compiacere lo spettatore, ma anzi gli richiede un notevole sforzo partecipativo e interpretativo. Subire passivamente le immagini in una pellicola del genere vorrebbe dire guardare una galleria di bei screen-sever da una parte, e annoiarsi a morte per la successione di immagini semi-casuali dall’altra. The Tree of Life è un film che richiede impegno e concentrazione, bisogna entrarci dentro e poi annullarsi nel suo flusso, così da sentire il significato denso delle immagini quotidiane, di uno stormo di uccelli, di una giocosa lotta tra fratelli, di una vestaglia che scorre su un fiume; le stesse immagini che faranno riconciliare Sean Penn (il fratello maggiore della famiglia, diventato adulto, che ripercorre parte della sua adolescenza nel film) con la via della Grazie, rappresentata dalla madre, abbandonata in gioventù in favore di quella della Natura (il padre, Brad Pitt).

Può infastidire l’insistenza di Malick sul tema religioso (numerosi sono i passi di Giobbe citati nella pellicola) che portano il regista a ricondurre questa ricerca dell’Assoluto in Dio, arrivando a fornire risposte per una volta non richieste, visualizzando immagini troppo forzate. Malick è maestro indiscusso di un lirismo del quotidiano in grado di far emergere il trascendente, lasciando allo stesso tempo lo spettatore libero di interpretarlo, qui invece è vittima di un paio di cadute di stile; in primis nella scena dei dinosauri. Cosa vuole dimostrare? Pietas saurina? O, al contrario, la legge del più forte? Una metafora dell’umanità che, comunque vadano le cose, verrà un giorno annnientata come l’asteroide per i dinosauri?  Anche la scena più smaccatamente metafisica, l’entrata di Penn nella via della Grazia (o nel Paradiso? o in una landa di anime?), fa pensare – sgradevolmente – più al finale di Lost che ad una trovata poetica e significativa che suggella la riconciliazione.


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