Ci sono esperienze cinematografiche più uniche che rare. The Tribe di Miroslav Slaboshpitsky è una di queste.
Interamente girato nella lingua dei segni, senza sottotitoli e senza voice over, senza parole e senza dialoghi, è lo sconvolgente esordio di un regista ucraino classe 1974. Un’opera gigantesca, mai vista prima, che riporta il cinema alle sue origini (al cinema muto) e allo stesso tempo lo proietta verso un’avanguardistica post-modernità.
Vincitore del Grand Prix della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2014 e Premio Fipresci ai 27esimi European Film Awards, The Tribe è uno dei film più belli, radicali e innovativi degli ultimi anni. Un’opera che fa male come un colpo sordo allo stomaco e che rintrona come una bottigliata in testa. Miroslav Slaboshpitsky non ha paura di osare e lo fa a dei livelli di coscienza e creatività che farebbero impallidire millantati “registi scandalo” come Lars Von Trier o il sopravvalutato Alexandros Avranas (Miss Violence).
Il regista ucraino non si accontenta di girare il suo The Tribe nella lingua dei segni e in un contesto suburbano e scolastico assolutamente degradato al largo di un’imprecisata Ucraina. Non c’è accompagnamento musicale, ma solo rumori in presa diretta, e l’(ab)uso di piani-sequenza che ci trascinano avanti e indietro in un collegio degli orrori, costringendoci a tenere gli occhi aperti di fronte a violenze ed efferatezze. The Tribe non sconta nulla: ci mostra amplessi sessuali (e non solo…) e una serie di uccisioni che scuotono per l’assenza di tagli di montaggio.
The Tribe è un film che mette in discussione tutti i punti fermi del cinema per come lo abbiamo sempre conosciuto. Mette in discussione il concetto di sceneggiatura, che spesso identifichiamo per lo più nei dialoghi tra i personaggi. In The Tribe non c’è una parola, ma c’è sceneggiatura. Mette in discussione il mestiere dell’attore: non c’è teoria da Actor Studio che tenga, tutto è silenziato e amplificato dai gesti convulsi e precisi dei personaggi. Mette in discussione la figura dello spettatore, portandolo ad uno stato ipnotico in cui si è totalmente assorbiti dal cercare di capire cosa “dicono” i personaggi, provando a decifrare i loro gesti in canoniche “parole”. Ci sfida quindi non ad ascoltare, ma a vedere per ascoltare, forzando l’occhio a farsi anche orecchio.
Nell’era dei film in 3D (un’era che sembra essere già morta, anzi abortita prima di nascere), The Tribe, in primis togliendo le parole, procede per sottrazione. Allo stesso tempo, però, ci spinge a usare gli altri sensi, a focalizzare l’attenzione su ciò che prima serviva “solo” per guardare. Ne emerge un’esperienza cinematografica che dalla sottrazione ottiene un’addizione di senso e coinvolgimento, verso un esito assolutamente (multi)sensoriale.
Insomma, The Tribe è un piccolo grande miracolo del cinema europeo. Un grande film, che lascia il segno, che entra nella storia del cinema, un’opera iper-autoriale che merita d’essere ricordata.
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