Magazine Cinema
Sono la persona meno indicata per parlare di The Turin Horse (2011) perché ritengo Béla Tarr il più grande regista vivente.
Il più grande, sì.
Sono conscio che l’autore magiaro sul piano quantitativo non abbia un curriculum parificabile a quello di altri suoi colleghi – si badi bene però: il primo film Family Nest risale al 1979 e ciò indica una carriera che ha oltrepassato i 30 anni di attività – ma consiglio spassionatamente a chiunque ami la settima arte di posizionarsi sul piano opposto per esaminare la sua filmografia, quello squisitamente qualitativo, in modo da comprendere, con disarmante stupore, che a Tarr sono bastati 2 film (ma uno vale quattro vista la durata) per diventare quello che almeno per me è: un gigante, e adesso che le voci su un possibile ritiro dalle scene non sono state né smentite e né confermate, lui ha comunque deciso di chiudere un cerchio. [1]
Capolinea. Basta. Stop. Fine di tutto.
Dopo Satantango (1994) e Le armonie di Werckmeister (2000) arriva il terzo Capolavoro totale capace di suggellare e definitivamente sigillare 17 anni di cinema che ora passeranno alla Storia e che dovranno essere ricordati ad imperitura memoria fino a quando non accadrà ciò che viene vaticinato in questo film.
R.I.P. CINEMONDO
Letargico e liturgico.
Tremando, con il cuore dentro quella schermata nera, sono le prime parole che mi sono sentito di accostare a A Torinói ló.
La prima perché, come era lecito aspettarsi, si tratta di un film eterno, che fa della dilatazione narrativa il proprio carburante, ed è una lentezza che non è mai l’anticamera di un’esplosione, piuttosto costanza visiva, impervia pianura che accumula in maniera indecifrabile, sottopelle, per poi colpire con scariche di cinema sopraffino. Nella prima ora e mezza non succede praticamente niente. E allo stesso tempo il richiamo a volgersi verso questa catapecchia schiaffeggiata dal vento è cogente, magnetico, ipnotico. Era già successo: non accade niente, accade tutto.
La seconda perché quel poco raccontato viene ripetuto durante tutti e 5 i giorni qui rappresentati.
La sveglia, la vestizione del padre, l’acqua del pozzo e il pranzo spartanissimo, assomigliano ad un rituale, un silenzioso protocollo: una cerimonia funebre.
Dall’esegesi alla diegesi: la ripetizione della forma e le reiterazioni musicali fanno del cinema di Béla Tarr un vero e proprio rito.
Parlando di The Man from London (2007) Sangiorgio dice che la maniera di Tarr prima che stilistica è morale (link). È vero. L’approccio di questo regista non cambia dai tempi di Damnation (1988), il suo agire, il suo credo, soggiaciono ad autoimposizioni capaci di creare una sintassi che ad oggi non può avere alcuna comparazione.
Rifiutando ora e sempre le canoniche dialettiche del campo-controcampo, ogni film di Tarr, e questo non sfugge a tale regola, si edifica su sequenze in cui la mdp coglie traiettorie celestiali, microviaggi sospesi nell’aria, palpitanti riduzioni di distanza tra chi riprende e chi è ripreso, oppure con la sublimazione della stasi l’occhio di Béla se ne sta candidamente fermo catturando ciò che gli riesce fuori e dentro il campo.
Il modello di Tarr è così: avvolge la realtà, la indottrina secondo le sue regole, e la ripropone in uno schema che contempla al suo interno la quintessenza di cose che non si trovano facilmente altrove: della vita, della noia, della morte, dell’uomo.
Di fronte ad una manifestazione cinematografica di tale entità non si può tacere.
Non si può perché The Turin Horse è un film incommensurabile, il capitolo conclusivo di un decennio iniziato, non a caso, con Werckmeister harmóniák [2] di cui quest’opera sembra la sua prosecuzione perché parte là dove si era concluso: da quella balena in macerie simbolo della follia umana. Ora, è il mondo intero ad essere in macerie.
Quindi nessuna argomentazione sul male, sul potere, nessuna disgregazione del Sogno (Valuska!): tutto è già successo, Nietzsche è impazzito, l’uomo alle soglie del nuovo secolo è solo, circondato da rovine e degrado, come dirà l’unico visitatore della casa.
Non c’è guerra, non c’è oDio, ma solo l’incontrovertibile verità della Fine.
Padre e figlia in una terra lontana da qualunque luogo e i segni di un’apocalisse silenziosa: come il vento biblico che spazza le foglie e spianta, estirpa, spezza ogni possibilità di speranza (una finestra sul niente); come i tarli che hanno smesso di far rumore perché non c’è più niente da rosicchiare; come il cavallo che prima non vuole partire e che dopo non vorrà più mangiare (accadrà la stessa cosa con la figlia); come il pozzo che improvvisamente si svuota; come una lampada che non riesce e non riuscirà mai e poi mai a schiarire tutto quel buio.
Guardare, mangiare, partire, bere. Verbi coniugati all’infinito alla base di ogni esistenza, e qui prosciugati di ogni senso, inariditi dall’avvicinarsi dell’eternità.
La scala emotiva che fa crescere d’intensità l’opera non ha eguali nel cinema moderno, merito della sopraccitata dedizione al ripetere che quando esibisce l’inceppamento del meccanismo rende quest’uomo e questa donna – e sì, pensateli pure scritti in maiuscolo – l’emblema dell’impotenza.
La Fine non è mai stata così enorme nel cinema, così sovrastante (leggi: sovrumana), così immensa, e di conseguenza l’uomo non è mai parso così disarmato, così povero (di qualunque cosa, sia dentro che fuori), così minuscolo alle prese con l’ovvietà delle faccende quotidiane.
E tale progressione si deve anche alle solite musiche stratosferiche di Mihály Víg che non sono un semplice accessorio, ma parte fondante che si integra totalmente nell’Immagine, innervandola, donandole potenza ed emotività, al pari di tutti gli altri film di Tarr che non sarebbero gli stessi senza le note del suo fidato collaboratore. Ma qui il riconoscimento per il comparto sonoro è doppio visto che per l’intera durata del film le nostre orecchie capteranno continuamente quel vento tremendo che spira fuori dalla casa, costante e ripetitivo, senza alcuna accezione negativa, come è il cinema di Tarr.
Capolavoro di inquietudine, The Turin Horse è un film che non può essere paragonato a niente semplicemente perché annichilisce tutta l’attuale produzione cinematografica. E per fare questo gli basta anche un singolo frame, si veda il primo piano del cavallo [3] o la fiammella della lampada.
Inquietante Capolavoro, A Torinói ló è anche il film che diegetizza in maniera assoluta il concetto di Apocalisse caricandola magnificamente di un’attesa che troverà sontuosa liberazione in quello che la voce off definisce, giustamente, un silenzio di morte.
Il probabile addio di Béla Tarr al cinema è, infine, un commiato di commovente bellezza che fa di questa arte territorio escatologico senza coordinate, l’avamposto prima del baratro, una lucina tremolante nell’oscurità che raggela.
The Turin Horse è, dunque, il funerale della totalità, di ogni singolo elemento che costituisce la Vita, e noi non siamo altro che i partecipanti della cerimonia: i testimoni silenziosi della fine… di noi stessi. Almeno ora, speriamo di riposare in pace.
Visione definitiva: il Cinema e il Mondo come se li vedessimo per l’ultima volta.
____
[1] Ma nell’intervista che potete leggere qui (e fatelo, che merita), Tarr sembra non ammettere repliche sul suo ritiro. “Non sono un tipo che scherza. Se dico sì, puoi star sicuro che è sì. Se dico no, puoi star sicuro che è no.”
[2] Non fraintenda la data di uscita. The Turin Horse era già pronto nell’agosto del 2010 come avevo sottolineato in questo post.
[3] Pura impressione soggettiva, ma la suddetta scena ha la stessa potenza di quella con il vecchio delle Armonie. Devastante.
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