Da tempo l’horror al cinema sta cercando di ritrovare una strada che lo (ri)porti al cuore del suo vero pubblico. Ma non semplicemente la facile via degli spaventi a buon mercato offerti, tra litri di Coca Cola e pop-corn al burro, ad uno svogliato (ed incostante) pubblico di teenager, né tanto meno l’altrettanto, e fin troppo battuto, sentiero dei docu-film, quello nato sulla scia di un genuino (ma furbo) falso documentario su una certa strega ed oggi artefice di più realistici (ma artificiosi) derivati, buoni come il latte cagliato. Di interessante c’è che nel tentativo di trovare una sua forma, tra operazioni di marketing prodotte Michael Bay (che, non pago di aver “drogato” il cinema action, ha deciso di dare il suo non richiesto contributo anche all’horror) e falsi found footage (cui si aggiunge anche il nuovo The Devil Inside), l’horror commerciale non disdegna di fare sue anche certe lezioni provenienti da un glorioso passato proponendosi orgogliosamente, e per alcuni un po’ anacronisticamente, come territorio di exploitation per appassionati del genere. Perché non di soli Martyrs o Rob Zombie può vivere l’appassionato. Così, se la stagione è stata segnata da episodi riusciti come Non avere paura del buio (incursione nella favolistica dark tra critters bisbiglianti e bimbi disturbati) o del notevole Insidious (ricognizione d’autore in territorio poltergeist), ecco adesso risorgere l’horror gotico grazie a The Woman in Black, prima produzione importante per la rediviva casa di produzione Hammer. Non la prima però (l’inedito, per le sale, The Resident non ha suscitato entusiasmi e Blood Story, per quanto discreto, è soffocato dal fatto di essere l’ingombrante remake del bellissimo film svedese Lasciami entrare) ma la più significativa senz’altro.
The Woman in Black muove i suoi passi dal bel romanzo omonimo di Susan Hill, già portato con successo in teatro e in tv e perfino alla radio, e, nonostante qualche infedeltà alla fonte letteraria di provenienza e talune ingenuità, si conferma un prodotto di genere solido e maturo oltre che una affettuosa rivisitazione di tòpoi non dimenticati del glorioso filone Hammer. Se infatti il plot offre brividi più o meno prevedibili e il fantasma di una vengeance tanto irrazionale quanto indomabile, è nell’apparato visivo che la pellicola conserva tutto il fascino rétro di una storia che si gusta, proprio come quei vecchi film, come in una buia nottata di pioggia. C’è la villa, tetra e bellissima, avvolta da alberi scheletrici ma anche da fronde verdi che celano presenze; c’è il villaggio di Crythin Gifford coi suoi abitanti avvinti dalla superstizione, c’è la palude e il cocchio, la nebbia e le bambole rotte, il cimitero, le sedie a dondolo e fantasmi riflessi in uno specchio scuro immediatamente di là dalle nostre spalle.
Tutti elementi che si correlano immediatamente ad altre visioni e sensazioni già presenti nel nostro immaginario e che il film non fa altro che far rivivere in una cornice sontuosa ma visivamente più cupa e lontana dall’abbagliante technicolor che caratterizzava i classici di autori come Terence Fisher o di Freddie Francis. C’è pure (ahimè!) qualche effettaccio di troppo che mortifica alcuni momenti di tensione abilmente costruiti (che siano dannati tutti i fantasmi giapponesi da The Grudge in poi!) e attenta all’equilibrio della mortifera messa in scena, anche se, per fortuna, si tratta solo di danni irrisori. Su tutto poi aleggia un’atmosfera di lugubre predestinazione di cui ancora una volta sono protagonisti assoluti i bambini, da sempre vittime indirette della stoltezza adulta, tristi bambole pronte a frantumarsi in nome di un rancore che non ha spiegazioni né qui né al di là. E se va segnalata subito la presenza di due comprimari d’eccellenza, il grande caratterista Ciarán Hinds e la rivelazione di Albert Nobbs, Janet McTeer (irriconoscibile in abiti femminili e per di più d’epoca) non va taciuto di menzionare l’apporto dato alla pellicola dal sottostimato Daniel Radcliffe, l’amato-odiato eroe di Hogwarts, che qui cerca di cacciare il suo fantasma più temuto, quello di Harry Potter.
L’attore, va detto subito, assolve con diligenza il compito affidatogli dal regista. Smessi i suoi tipici occhiali tondi che sottolineavano la natura un po’saccente del celebre protagonista della saga della Rowling, Radcliffe può finalmente rivelare tutta l’azzurra innocenza del suo sguardo, che qui sembra diventare l’unica lente capace di perforare il grigio e le tenebre della vicenda. Il suo personaggio attraversa i momenti più terrorizzanti con piglio candido e quasi imperturbabile, sospeso in una perenne catatonia di fronte ad eventi che ad altri farebbero saltare le coronarie, mentre quel suo empatizzare con la morte, figlio di una tragedia passata, non fa che preludere significativamente alle ombre (e alle nebbie) che verranno. In questo senso la sfida di Radcliffe di affrancarsi dal maghetto attraverso una storia di orrore, dolore e riappacificazione può considerarsi ufficialmente vinta. Quell’uscita di scena nella stazione della ferrovia nel finale del film sembra suggellare davvero il saluto definitivo a quel binario 9 ¾ che tanti anni fa lo prese mago e infine lo restituì uomo.