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Allora, l’idea che sta alla base di Les revenants (2004) ha un suo perché, e ovviamente non parliamo della semplice questione “ritorno dall’oltretomba” vista l’inflazione dell’argomento nella letteratura horror, piuttosto la caratterizzazione del tema che prende le distanze dal sangue, e in generale da qualunque tipo di macelleria, proponendo al contrario una figura zombesca quasi candida, serafica, ultraterrena. Ergo: lo splatter ed il gore qui non c’entrano niente, anzi si tenta la carta antitetica dell’introspezione perché il film punta decisamente verso siffatti territori ai quali si affiancano ragionamenti relativi all’integrazione del diverso, e quindi riflessi socio-politici abbastanza evidenti. Peccato però che tutto ciò resti abbozzato, in una forma che è poco oltre quella embrionale e, soprattutto, macchiato da una risoluzione approssimativa.
Robin Campillo, stretto collaboratore di Cantet con il quale ha scritto A tempo pieno (2001) e La classe (2008), opta per una struttura elementare in cui si avvicendano le teorie scientifiche a proposito dei redivivi con i singoli quadretti famigliari, se la prima operazione non infastidisce nemmeno troppo (anche se la roba delle videocamere termiche lambisce il trash), è nell’affrontare questa specie di contro-elaborazione del lutto che la pellicola zoppica visibilmente. Le tre diverse vedute che corrispondono alle tre età generazionali (il bimbo, il giovane, la vecchia) si diluiscono nel nulla e si perdono in schermaglie tanto preconfezionate quanto prevedibili. Ma la carenza più evidente sta probabilmente altrove, perché sebbene i rapporti vivi-morti siano deficitari di pathos, l’alone di mistero che avvolge le diverse situazioni fa sì che l’encefalogramma non si appiattisca in maniera definitiva, tuttavia risalta agli occhi di come Campillo, una volta portate avanti le premesse, giunto alla resa dei conti non fornisca uno scioglimento accettabile: infilatosi in un vicolo cieco il regista tenta goffamente la via di fuga della cospirazione da parte dei deceduti senza che in precedenza avesse creato alcun presupposto a riguardo.
Tenendo conto poi di uno stile registico pressoché assente e dell’obbligo ad applicare la propria sospensione dell’incredulità praticamente in ogni riga della sceneggiatura, They Came Back da opera simil-intellettuale quale vorrebbe essere finisce in un limbo di vacuo intrattenimento, pallido risultato di uno spunto che poteva essere trattato molto meglio.
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