Magazine Società

Thirty one days, a mounths (Trentuno giorni, un mese)

Creato il 23 luglio 2011 da Fernando @fernandomartel2

Voglio scrivere un Libro, il titolo è quello dell’articolo. voglio parlare con chi mi legge, della mia esperienza nella Casa dei Popoli, di quella convissuta con i profughi africani ospiti della chiesa di Borgata ferria, su nei monti di Forno di Coazze, in Valsangone.

In questo libro, vorrei raccontare, una parte della loro storia, quella più vicina a noi, che più ci riguarda.

La storia di uomini e donne a noi sconosciuti prima, che il destino ha portato ad incrociare le loro strade con le nostre, per poter capire chi sono, come mai sono arrivati qui, nella nostra valle.  Da dove provengono e chi sono, ma anche per cercare di capire cosa noi dovevamo fare, cosa abbiamo fatto per comprendere se davvero noi siamo quelle persone che crediamo: gente capaci di tendere una mano al nostro simile, al nostro prossimo, o se invece, siamo molto più simili di quando vogliamo far credere, a coloro che esposero quelle lenzuola con quelle odiose scritte, con le quali hanno presentato il loro benvenuto a chi fuggiva da una guerra per salvare l’unica cosa che gli era rimasto:la  vita.

Presenteremo i nostri trentuno ospiti, dei quali possiamo pensare di essere diventati buoni amici, uno per uno, raccontando per ognuno di loro un mese di vita, trentuno giorni, un mese. Quello che hanno vissuto, o meglio quello al quale sono sopravissuti, per poter giungere fino a noi, in borgata Ferria di Forno di Coazze.

Tutti quelli che formano il gruppo dei profughi, sono emigranti.

Nessuno di loro è libico, sono emigranti di altre nazioni africane che hanno attraversato molti altri stati prima di giungere in Libia: il paese dove c’era lavoro e loro potevano inviare soldi alle loro famiglie per mantenerle. Erano scampati a molte morti. A quella delle guerre nei loro paesi, quella in attesa nei deserti, lungo i molti chilometri fatti quando sono partiti dalla Nigeria, dal Congo o dal Senegal. Quella che li ha rifiutati nella guerra scoppiata in Libia, quella che non li ha voluti in mare  tra le coste africane e Lampedusa. Si sentono dei miracolati, sanno che Dio non ha ancora voluti e accolgono questo beneficio come un segnale divino che per loro conserva, chissà dove, un nuovo destino, una vita vera.

Se sia o meno tra le pieghe della nostra bellissima Valsangone che si scriverà la loro storia nel futuro, dipende però anche da noi. Se il fato li ha fatti giungere qui, avrà un suo disegno, no? E a noi che parte ci riserva? Possibile che ci abbia riservato solo un posto in prima fila nel film della loro storia? Può essere che noi crediamo di stare ancora guardando i profughi da un oblò televisivo, come fossero a Lampedusa? Il fatto è che questo non è un film, ma vita reale. La loro e la nostra. E non è solo la loro che dipende da noi, dal ruolo che vogliamo giocare in questo spettacolo reale, è anche, ed io affermo con convinzione, la nostra vita che è in gioco: il modo in cui decidiamo di viverla, in che modo ci rapportiamo agli altri e a noi stessi: il nostro libero arbitrio. Quello che ci fa comprendere se a questi uomini noi concediamo un aiuto perché nostri simili o glielo neghiamo perché li vediamo diversi. Li vediamo ho detto, proprio perché sono neri. Perché sul sentirli non c’è nessun dubbio: sono proprio come noi, nostri simili, sono noi!

Conosciamo tutti la risposta a quella che sembra la domanda centrale della discussione: Ma noi non dovremmo avere il dovere di aiutare prima i nostri? Ed i nostri diventano tutti: i disoccupati, i cassintegrati, i nostri amici e i nostri figli, gli italiani prima e i…bianchi? Me lo ha chiesto la signora di uno dei negozi dei telefonini del paese, non prima i bianchi?

<<No signora…>> le ho risposto << non a me deve chiedere questo. Io sono nero, non si ricorda? Mi ha chiamato Napuli, africano fino a ieri, mi ha messo la sbarra…io sono un emigrante, uno di loro! >>

Io credo che non ci convenga sperare di dover provare la nostra capacità di aiutare gli altri, aspettando che una frana o una alluvione, travolga e scardini le case e le vite di una quindicina di famiglie della nostra valle per misurare la nostra solidarietà. Se il fato ci ha mandato loro per verificare il nostro polso, noi non ci dovremmo sottrarre alla prova.

Proprio in questo momento di grande difficoltà per noi?

Noi non potremmo scegliere un momento migliore per questa prova. La misura delle capacità umanitarie che vantiamo come popolo, non sono state create in tempi più ricchi di questi, ma in guerra ed in povertà. Solo l’egoismo che ci pregna ci fa pensare(ma non credere) che in questo momento non potremmo. Quando Cristo bussa alla porta, non possiamo dire: Abbiamo qualche difficoltà, ripassa!

Thirty one days, a mounths (Trentuno giorni, un mese)



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :