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Nella prima il cinema racconta Jafar Panahi, regista iraniano premiato all’estero e, strano a dirsi ma è la verità, distribuito anche in Italia (Il palloncino bianco, Lo specchio, Oro rosso), alle prese con quello che il principio di negazione del titolo esplicita efficacemente: questo non può, non deve essere un film perché su Panahi pesa prepotentemente un’accusa inflittagli dal potere teocratico iraniano, una assurda lesa maestà che avrebbe visto il regista fomentatore propagandistico contro il regime, il quale, a fine 2010, ha colpito con la sua scure: 6 anni di carcere più il divieto di lasciare il territorio iraniano, di concedere interviste e di fare film per almeno 20 anni. A nulla sono servite le petizioni planetarie nei suoi confronti perché anche il ricorso in appello presentato l’anno successivo si è rivelato un buco nell’acqua: pena confermata e un altro spicchio di libertà del nostro mondo ridotto in frantumi.
La costrizione della condanna colpisce Panahi che diventa un cittadino ingabbiato nella dorata dimora, e in questa forzata detenzione ciò che emerge maggiormente è lo sgretolamento della Persona Regista, la negazione di poter esprimere la propria vocazione, il credo artistico, la visione del mondo, è come se Panahi fosse stato accecato, o come se gli avessero tagliato la lingua: è un’agonia, un limbo di niente (gli atti quotidiani come nutrire l’iguana di casa non sembrano fatti per lui) in cui comunque la voglia di lavorare, di riprendere, di esistere come regista non riesce ad essere soffocata, prova ne è che anche un mezzo modesto come un iPhone e degli altrettanto modesti fuochi d’artificio possono diventare rispettivamente il mezzo ed il soggetto per trovare una piccola e consolatoria liberazione professionale.
Nella seconda biografia il cinema racconta l’Iran, e lo fa indirettamente, nei limiti spaziali di una bella abitazione, e temporali, il film dura un’ora e un quarto. Ciononostante il quadro offerto non si discosta dall’idea che noi occidentali abbiamo del paese, ovvero una nazione sotto scacco, obnubilata dalle esternazioni di Ahmadinejad e dalle continue sommosse americane. Ma di questioni del genere non vi è traccia qui, nulla di plateale, nessun attacco diretto al sistema, solo constatazioni sfuggenti (e tangibilissime) come il rumore sordo degli spari che riecheggiano nel cielo di Teheran, la cantilena delle sirene, le testimonianze degli interlocutori telefonici che parlano di posti di blocco lungo la città, la sentenza stessa che non ha niente di legale e tutto di politico, le notizie al telegiornale in cui vengono riportate le dichiarazioni del governo in merito alla non religiosità dei fuochi d’artificio di fine anno, la vita di uno studente universitario che si occupa di arte ma che non crede molto nel suo futuro e allora si arrangia con lavoretti di ogni genere dal netturbino a domicilio alla dura vita della fabbrica. Inoltre è Panahi stesso che nella rappresentazione del suo film immaginario disegna un quadro sociale (parallelo della sua vicenda) fatto di limitazione, segregazione, sconfitta e illusione.
Nella terza biografia il cinema racconta il cinema. Perché aldilà della contraddizione che sostanzia il titolo questo un film lo è eccome, e se si guarda oltre la denuncia socio-politica e il dramma personale dell’uomo, si scopre che i registi (Panahi è aiutato dal collega Mojtaba Mirtahmasb) stendono un piccolo trattato cinematografico in cui è ben chiara la facilità con cui il cinema può nascere: basta una mdp accesa con qualcuno che gli sta davanti; è nella sottolineatura del supporto e dell’Attore che il film spinge: il mezzo assurge a protagonista (Panahi che all’inizio torna indietro per prendere la camera) diventando parte integrante dell’opera nella scena del campo-controcampo tra cellulare e cinepresa, in più si gioca sulla riproducibilità del cinema con gli stralci dei vecchi film di Panahi inseriti nel montaggio e sovrapposti con il video reale sullo schermo della tv. C’è aria di riflessione, di ragionare sulla settima arte proprio attraverso essa, e una tale verticalità di pensiero atterra sulla figura di Panahi che, come ammette lui stesso, non è più soltanto regista, sceneggiatore o attore, è tutte le cose all’unisono, in altre parole lui stesso è il film che afferma di non essere tale, piccolo demiurgo intrappolato fra le mura casalinghe, corpo entropico in grado di schiodare il Sistema.Con This Is Not a Film il cinema e l’uomo-regista diventano una cosa sola dall’integra identità, e di riflesso la speranza assume i contorni di un giovane che sparisce laggiù, dove l’occhio non può più arrivare, tra le fiamme oltre il cancello.
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