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this must be the place

Creato il 17 ottobre 2011 da Albertogallo

THIS MUST BE THE PLACE (Italia-Francia-Irlanda 2011)

locandina this must be the place

Ho avuto un flash, qualche giorno dopo aver visto per la prima volta il trailer di questo film (cosa avvenuta più o meno tre settimane fa). Era il luglio del 2009. Reggia di Venaria, concerto (supermeraviglioso) di David Byrne. Tra il pubblico c’era anche Paolo Sorrentino. Quindi il futuro regista di This must be the place (titolo ripreso da una canzone dei Talking Heads, 1983) e colui che di questo film avrebbe in seguito composto le musiche (nonché colui che proprio dei Talking Heads fu genialissimo leader) due anni fa già si conoscevano, e forse, all’epoca del concerto, già pensavano a questa collaborazione.
Perché ho raccontato questo insignificante aneddoto? Non lo so. Ma se David Byrne dovesse un giorno capitare dalle vostre parti non badate a spese e fiondatevi a sentirlo (e vederlo), non ve ne pentirete.

Il film, adesso.

Cheyenne è un’ex rockstar (di quelle superdepressive, alla Robert Smith dei Cure) ritiratasi dalle scene presumibilmente in seguito al suicidio di alcuni suoi giovani fan. Passa le giornate cazzeggiando nella sua villa o passeggiando lungo le vie di Dublino. Le cose cambiano quando, in America, paese d’origine del cantante, muore suo padre, ebreo sopravvissuto ad Auschwitz che aveva passato la vita a dare la caccia al suo aguzzino nazista. Cheyenne decide di portare a termine la missione-ossessione del padre.

Devo dire che mi è piacuto, questo This must be the place, per/nonostante alcune scelte originali/convenzionali così insolite/tipiche per un regista al suo esordio nel cinema che conta, ovvero nel mercato internazionale e soprattutto americano.

Leviamoci il dente, e cominciamo da ciò che rende questo film il solito film di un provinciale in gita nel centro dell’impero. Il genere, innanzitutto: This must be the place è un road movie. Andare in America a girare un road movie, per quanto originale, è come andare in India per filmare i fachiri. Si poteva senz’altro pensare a qualcosa di più originale. Pecca di ingenuità, invece, la visione che la pellicola fornisce dell’America, dipinta come un paese di strade lunghissime, statue enormi (la bottiglia gigante, il pistacchio da record), big skies, canyon, grattacieli e quant’altro. Lo sguardo di Sorrentino è lo sguardo del giovane turista sbarcato per la prima volta in un luogo di cui tanto ha sentito parlare e che corrisponde in tutto e per tutto alle sue aspettative. Non vorrei risultare blasfemo, ma i limiti del film, in questo senso, mi sembrano più o meno corrispondere a quelli del Wim Wenders americano: This must be the place è il Paris, Texas di Sorrentino – anche se difficilmente farà epoca come il suo predecessore. Il terzo e, per quanto mi riguarda, ultimo grande difetto di questo film è la sua paraculaggine: adesso passerò per il negazionista che non sono, ma sbarcare sul mercato statunitense con un film che affronta in qualche modo il tema dell’olocausto (tragedia avvenuta in Europa, ma oggi di fatto americana – oltre che ovviamente israeliana) è una di quelle captatio benevolentiae da far venire il voltastomaco. Benigni, 14 anni fa, fece la stessa cosa con La vita è bella (ricordate il finale, con gli americani che entrano nel lager a salvare gli ebrei?) e gli andò piuttosto bene. Che Sorrentino speri di avere la stessa fortuna? D’altronde potrebbe anche farcela, essendo questo film intriso di americanismo (roba alla “tutti possiamo farcela se solo ci proviamo”) fin nei suoi anfratti più profondi.

Ma tutto ciò è solo un cercare il proverbiale pelo nell’uovo, dal momento che, sotto un punto di vista strettamente emotivo, This must be the place è un film assolutamente riuscito, che commuove e coinvolge senza se e senza ma. Personalmente mi son venuti i lucciconi agli occhi in più di una scena, e soprattutto quando Cheyenne accompagna alla chitarra il bambino grasso e stonato che vuole cantare il brano che dà titolo al film (“Quella dei Talking Heads?” “No, degli Arcade Fire!”), ma di esempi se ne potrebbero fare a decine – anche il prefinale è molto toccante, con il carnefice trasformato in vittima mostrato in tutta la sue senile bruttezza. Altri punti a favore di questo film: l’interpretazione meravigliosa del protagonista Sean Penn (che dà vita, tra l’altro, a un personaggio esteticamente ben poco convenzionale e piuttosto sgradevole: scelta – questa sì – coraggiosa, specialmente in un’epoca omofoba e conformista come la nostra) e di tutti gli altri interpreti (c’è persino Harry Dean Stanton, altra reminiscenza wendersiana); le musiche, ovviamente (cui ha collaborato anche Will Oldham, aka Bonnie ‘Prince’ Billy); alcuni divertenti dialoghi di matrice tarantiniana (come conquistare le donne, la storia delle rotelle nelle valigie); e infine, ma forse è la cosa più importante, il fatto che Paolo Sorrentino abbia dimostrato con questo film, ancora una volta, di essere un regista, uno dei pochi che ancora esistono in Italia: i suoi virtuosismi (che sono tanti – anzi: dal punto di vista estetico-registico questo film non è altro che un collage di virtuosismi) possono piacere o no, ma rimane il fatto che lui, la cinepresa, sa dove piazzarla e sa come muoverla. Cosa da non dare troppo per scontata, nel nostro cinema.

Alberto Gallo

Post scriptum: c’è una scena molto accattivante, più o meno a metà film, in cui si vede David Byrne esibirsi dal vivo in un locale di New York. Come non citare, a questo punto, il mitico rockumentary di Jonathan Demme Stop making sense, film-concerto sui Talking Heads all’apice del loro splendore? Se non l’avete ancora visto recuperatelo al più presto. Anche in questo caso non ve ne pentirete.



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