Magazine Cinema

This must be the place

Creato il 19 ottobre 2011 da Eda

This Must Be the Place (Paolo Sorrentino)    ★★½ /4This Must Be the Place, Italia/Francia/Irlanda, 2011, 118 min. ★★½ /4

Paolo Sorrentino è senza dubbio uno dei migliori registi italiani emersi nell’ultimo decennio e probabilmente quello con il timbro autoriale più personale e riconoscibile. Lo ha dimostrato sin dall’esordio ne L’uomo in più, passando per il capolavoro Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia e ricevendo la consacrazione internazionale con Il Divo. Qui si confronta con il suo primo film in lingua inglese, potendo vantare per l’occasione un protagonista di sicuro richiamo, Sean Penn (si dice che sia stato proprio l’attore americano a proporre al regista di fare un film assieme).  

Cheyenne (Penn) è un bambino nel corpo di un cinquantenne sfatto, a suo modo buffo e ingenuo, l’ombra della rock star che un tempo era, ora depresso e annoiato cronico. Look alla Robert Smith, andatura incerta e voce in falsetto, vive stancamente nella sua grande casa in Irlanda dove sembra che l’unica attività ad interessarlo sia giocare a pelota con la moglie (una brava Frances McDormand). Alla notizia della morte del padre, col quale non parlava da trent’anni, Cheyenne si reca al suo capezzale in America per poi mettersi alla ricerca dell’aguzzino nazista del genitore, recluso in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Un viaggio in bilico tra redenzione e vendetta, maturazione e smarrimento.

This Must Be the Place (Paolo Sorrentino)    ★★½ /4
L’impatto con il personaggio interpetato da Sean Penn non è dei migliori e il doppiaggio ne ridicolizza ancora di più la goffa figura. Già dal protagonista si riscontra quindi quello che risulta essere il maggiore difetto del film; un eccessivo bozzettismo caraterizza infatti molte, troppe scene (il pattinatore, l’uomo-batman, la bottiglia gigante) che sembrano messe a bella posta per strappare la risata alla spettatore, rimanendo però slegate dal contesto. Questo non è un tratto nuovo nella poetica del regista, ma appare qui in maniera forzata, andando a spezzettare la pellicola in tanti micro-episodi  che rendono il filo conduttore una matassa arzigogolata. Sorrentino troppo spesso indugia su di essi, accumulando personaggi bizzarri e situazioni grottesche che poi vengono abbandonate quasi subito, portando così ad una frammantarietà narrativa che non giova al film. Certo, queste scenette permettono anche di ripensare al personaggio di Cheyenne, collocandolo in un mondo fuori dagli schemi nel quale il look improponibile e lo sguardo vacuo diventano gli occhi per smascherare l’ipocrisia delle persone che lo guardano sogghignando. Non basta però questa chiave interpretativa per risollevare quello che appare comunque un film sbilenco, troppo spesso impegnato a compiacere lo spettatore e il suo regista.

Ad onor del vero l’umorismo stralunato che contraddistingue tutta la pellicola va spesso a segno e si ride anche di gusto, così come i dialoghi – siano essi ironici o drammatici – sono incisivi; nonostante sia difficile prendere sul serio Cheyenne è innegabile infatti la disperazione e la tenerezza sprigionate in quella sorta di confessione-monologo che fa all’amico David Byrne, interprete di se stesso nel film quando canta la canzone che dà il titolo al film. Pregi che permettono di soprassedere alle lacune narrative sopra esposte in nome di una visione molto godibile che non viene appesantita neppure dal difficile tema dell’Olocausto. Questo viene infatti trattato con sobrietà e senza eccessi, anche se in realtà Sorrentino non ci si addentra mai veramente, come se avesse avuto paura di scottarsi con un tema più grande di lui, rinunciando così a farne il tema principale della pellicola che rimane, come d’altronde in ogni on the road che si rispetti, la crescita spirituale del protagonista. Nel suo pellegrinare per gli Stati Uniti però, Cheyenne non sembra assorbire nulla dai tanti personaggi che trova sulla percorso se non una volta arrivato all’incontro finale. Fino ad esso infatti questo sviluppo interiore non viene mai elaborato, preferendo privilegiare la sua interazione con la varia umanità che incontra, spingendo a volte su tasti a volte lirici a volte grotteschi, così che la svolta finale risulta sì poetica, ma anche affrettata e un pò pretestuosa.

This Must Be the Place (Paolo Sorrentino)    ★★½ /4
Una cosa sulla quale invece non ci si può proprio lamentare è la parte tecnica. Sorrentino è bravo e lo sa, ed anche se – come ne Il Divo – si ha la sensazione che indugi troppo sulle raffinatezze e le soluzioni ad effetto, vedere un suo film è un tale piacere che glielo si perdona facilmente, come ad un fantasista che fa colpi di tacco e pallonetti millimetrici. Molte sono le scene pregevoli, ma il piano sequenza da cui è tratto il fotogramma qui vicino lascia semplicemente a bocca aperta per il gusto con il quale sono armonizzati l’elegante movimento di macchina, il geniale uso della scenografia e la musica che nel frattempo viene suonata live. La sua classe formale è lampante e qui viene ulteriormente valorizzata da importanti collaboratori come Luca Bigazzi alla fotografia e il già citato David Byrne a curare le musiche, da sempre parte fondamentale nel cinema di Sorrentino.

Il grande salto del regista verso il mercato internazionale si può quindi dire solo parzialmente riuscito, ma fa piacere constatare come nonostante il target di riferimento sia cambiato, la sua cifra autoriale sia rimasta invariata. This Must be the Place si può quindi considerare come una pellicola di transizione e “adeguamento” in previsione di – speriamo - futuri capolavori.

EDA


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines