“Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato…” usa ripetere con noiosa insistenza il viso pallido Cheyenne, interpretato da Sean Penn. Parafrasando questo suo ritornello, mi alzo dalla poltroncina del cinema e penso: “Qualcosa non va, non so bene cosa, ma qualcosa non va…”. E’ con questo enigma da sbrogliare che cerco d’analizzare l’ultima opera di Paolo Sorrentino, This must be the place.
Incensato a dovere a Cannes 2011 e acclamato come il film dell’anno, This must be the place è senza dubbio un bell’oggettino cinematografico. Difficile giudicarlo diversamente quando alla regia c’è Sorrentino, all’attore protagonista c’è Sean Penn e alla fotografia Luca Bigazzi. Lo stile sorrentiniano è inconfondibile: dolly, travelling, carrelli, gru a non finire verso soluzioni fluide, dolcemente vorticose, compitamente acrobatiche. Sorrentino disegna nello spazio del set geometrie curate, ortogonali, curve perfette e spezzate; adora indagare gli ambienti prima di andare a scovare, talvolta con vere e proprie sterzate della mdp, i suoi personaggi. Sean Penn è magistrale. Insieme a quanto fatto per Mi chiamo Sam e 21 grammi, è la prova della vita. Veste i panni di un ex rocker depresso con sentita professionalità e verace partecipazione. E questo sin dalla prima mano di trucco nero che si stende sugli occhi glaciali e smorti. La mimica facciale è puntuale, chirurgica, misurata, capace di esplodere/implodere al momento richiesto. Basta considerare la risatina mugolata spesso sfoderata o i bagliori di finta vita regalati al bar tra la figlia Mary e l’inteccherito cameriere Desmond o ancora la sparata in piano sequenza di fronte ad un impacciato David Byrne. Terzo fattore è la poesia fotografica di Luca Bigazzi, il quale raggiunge qui l’apice assoluto della sua profondità artistica. Ogni luce, ogni riflessi sul pickup, ogni paesaggio a perdita d’occhio è un quadro da museo, che non ha prezzo. A legare questi ingredienti ci pensa la piacevolissima colonna sonora di David Byrne, leader dei Talking Heads. Ogni traccia costringe il nostro piede a tenere il ritmo, come se fosse totalmente assuefatto dalla tambureggiante musicalità pop, infarcita di un lieve gusto country da on the road.
Tra gli attori, seppur in parti marginali (Sean Penn fagocita lo schermo e la nostra attenzione), sono da applausi sia Frances McDormand sia la giovane acqua e sapone Kerry Condon.
I dubbi sorgono una volta che ci confrontiamo con la storia, il soggetto, la sceneggiatura. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un guazzabuglio, un puzzle i cui pezzi s’incastrano maluccio e a forza. Una rockstar alla ricerca del nazista che umiliò suo padre nel campo di concentramento. Rock e Shoah. Accostamento scivoloso, e Sorrentino un po’ ci scivola. Due elementi inseriti in un romanzo di formazione un po’ campato in aria, non del tutto convincente, costellato di macchiette ben caratterizzate da contorni caricaturali. Personaggi goliardici che però risultano inutili ai fini del film. Primo fra tutti l’indiano che si fa un giro sul pickup, poi scende e si perde di corsa in un assolato e giallissimo campo di grano ai bordi della statale.
Sorrentino pare risentire di quell’americanismo che mette insieme spizzichi e bocconi dal sapore citazionistico. Ma non riesce a cucirli insieme. E’ così che, all’interno del tema del viaggio da road movie dentro e fuori di sé, ci sono chiare eco da Easy Rider e Into the wild (di Sean Penn!). Tanti personaggi da incontrare e abbandonare. Ma c’è anche quel gusto pop, decadente, sfumatamente noir dei fratelli Coen tramite la presenza di personaggi border line. A partire dal cane, che apre il film, con paralume anti-morso; lo stesso Cheyenne è una rock star che ha fatto il suo corso, con gli occhialetti da nonnetta sulla punta del naso, la camminata con ginocchio valgo, la cannuccia sempre in bocca per fare le bolle al posto di una adulta sigaretta; c’è poi il personaggio della McDormand, un pompiere, che ricorda troppo la parte da lei impersonata in Fargo (film dei Coen, appunto); e ancora il vecchio impettito con baffetto hitleriano sul carro in corsa o la grassona punk. Uno zoo umano surreale, accozzato, accatastato lì come molte sequenze tra loro scordinate e portatrici di ellissi temporali sfuggenti. Lo stesso montaggio ricorre a cesure nette, dove la musica sfuma repentina, con impazienza e frettolosità, come in un film ad episodi. Di questo passo s’arriva ad un finale che senza dubbio è inaspettato e a sopresa, ma anche deludente, forzato, che molti non comprenderanno alla prima…
Insomma, c’è un evidente zibaldonismo di fondo, atto a marcare uno scarto tra tecnica (sopraffina, virtuosistica, estasiante) e contenuto (non compiuto, non decantato a sufficienza per essere davvero digerito)…