Un uomo in crisi di mezz’età, di fronte a un grave lutto, è obbligato a confrontarsi con la sua vita e a intraprendere un viaggio che è anche spirituale.
La trama è tra le meno originali mai sentite e la sceneggiatura (firmata con Umberto Contarello) ha un sapore molto improvvisato, per non dire sconclusionato, ma il film di Sorrentino si basa su paesaggi, musiche, personaggi e situazioni.
Con il personaggio di Sean Penn, il regista napoletano supera se stesso in quanto a grottesco, e per di più lo fa interagire con una marea di freaks che nulla servono alla storia, ma fanno scena.
E così abbiamo il tipo tatuato che chissà perché si confida con lui, l’anziana maestra che vive con un’oca in una casa delle bambole di sapore Kitsch orrorifico, l’inventore della valigia a rotelle che gli racconta la sua vita, l’uomo di affari che non si fida di lasciare l’auto alla moglie ma la dà a uno sconosciuto..Tutti personaggi assurdi, grotteschi più nei modi che nel look, che strappano qualche sorriso e molte perplessità.Ma è nel protagonista che l’autore concentra tutta la sua sete di apparire e di colpire. Un personaggio costruito con il semplice pretesto di rimanere nell’immaginario collettivo e di essere elevato a icona, come i Coen hanno insegnato col loro Dude /Drugo (e sull’influenza dei Coen in Sorrentino si potrebbe dire molto (c’è perfino Frances MacDormand!). Ogni battuta, sguardo e gesto di Cheyenne è perfetto per diventare cult, talmente perfetto e “iconico” da risultare quasi fastidiosamente studiato a tavolino per poter comporre un album di immagini culto:Cheyenne che sbuffa soffiando verso il lungo ciuffo, Cheyenne che beve la sua bevanda analcolica, Cheyenne che trascina il suo inseparabile zaino a rotelle, Cheyenne che ripete alcune battute più volte: tutto è già mito nel momento stesso che viene mostrato. Lo stesso fatto di vedere Penn così conciato è di per sé mitico. E a Sorrentino va riconosciuto di esserci davvero riuscito a creare un personaggio memorabile, destinato a rimanere nella memoria e nella carriera, già ricchissima, di Sean Penn: la rockstar depressa e suonata, ma dal cuore d’oro è uno dei personaggi più belli visti di recente sullo schermo, benché estremamente banale.Anche le battute da lui pronunciate hanno tutte le carte in regola per rimanere, mentre registrano un passo indietro, rispetto alla precedente filmografia dell’autore napoletano, l’aspetto visivo e quello musicale, comunque notevoli.La fotografia di Luca Bigazzi è sempre un bel vedere, ma osa meno del solito; lo stesso vale per la musica: si sono scomodati David Byrne, Nino Bruno, Will Oldham, ma il vero brano portante è uno non originale, la magnifica e struggente Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt, che, per strana coincidenza era anche il tema dell’ultima famigerata prova cinematografica della prima moglie di Sean Penn.Ciò che fa storcere il naso è però l’aver scomodato nientemeno che la Shoah. Se tale scelta azzardata può sembrare all’inizio una mossa fastidiosamente furbetta per accattivarsi la cospicua componente ebraica di Hollywood, ben presto le ragioni del gesto sfuggono del tutto perché al contrario, Sorrentino tratta in modo offensivo e a dir poco banalizzante un tema così delicato e inflazionato alternando ai corpi senza vita dei bambini uccisi nei lager l’immagine grottesca di Sean Penn che chiacchiera spensieratamente, e all’immagine del vecchio nazista buono punito, una delle sue battute cult di Cheyenne “Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato...”.Il debutto americano di Paolo Sorrentino è insomma riuscito a metà: i fan possono tirare un sospiro di sollievo perché l’autorialità del regista non è venuta meno, ma anzi, si è adattata con classe a un topos tipicamente americano come il road-movie. Peccato che vi manchi dietro un’idea forte, quasi che l’importante fosse semplicemente arrivare ed apparire. Sorrentino ce l’ha fatta. E’ arrivato e il suo film si farà ammirare in tutto il mondo, ma se il pubblico americano accetterà i suoi ostentati ammiccamenti è tutto da vedere. In Francia, per il momento, è stato un enorme fiasco.Riassumendo, il film è come la scena del concerto di David Byrne: sorprendente, avvolgente, un po’ troppo lungo e francamente fine a se stesso. In ogni caso, il miglior film di un regista italiano di questo 2011. VOTO: 7,5