Non mi stancherò mai di ripeterlo. Una sceneggiatura eccezionale per un possibile film su Thor c’era già: la Saga di Surtur, ad opera di Walter Simonson, il disegnatore con la firma a dinosauro.
Si è voluto dar vita, invece, all’ennesimo reboot, per la regia di Kenneth Branagh che, da attore/regista shakespeariano qual è, a suo dire, ha preso l’Enrico V e l’ha riadattato a una saga norrena, tra martelli e giganti dei ghiacchi.
Non nutrivo molta fiducia nella scelta del regista, proprio per questa sua propensione classica e drammatica, che mal si sposa con un personaggio difficile quale può essere Thor.
Quest’ultimo è il figlio di Odino. Non un alieno o un supereroe nel senso più classico del termine, ma un dio. E, a leggere la sua mitologia, un dio burbero, crudele e irruente, come tutti gli dei giovani e possenti, dall’appetito smodato, anche sessuale, pronto a ubriacarsi e a schiacciare col suo martello, il Mjolnir, le teste dei giganti dei ghiacci, leggendari avversari degli dei nordici.
Il mantello rosso e l’elmo alato sono, se non erro, aggiunte della Marvel. Aggiunte sulle quali Simonson stesso scherzava e ironizzava, soprattutto il mantello, paragonando il personaggio a più riprese al Superman della D.C.
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La scelta di Branagh va a inserirsi nel progetto Marvel di ricreare, al cinema, la continuity del fumetto. Tutti gli eroi protagonisti di altrettante testate, riuniti nel medesimo universo dove tutto accade contemporaneamente.
Ora, Thor, così com’è, è un personaggio problematico. Non è ultratecnologico e figo come Tony Stark e la sua armatura, per intenderci, né atletico come l’Uomo Ragno, o marchiato a fuoco dal razzismo degli umani come gli X-Men. Thor è alto, biondo, possente e immortale. Dal punto di vista della sceneggiatura, un incubo.
Allora, due erano le scelte percorribili, o affidarsi completamente all’opera di Simonson, che non solo restituì il successo editoriale alla testata The Mighty Thor, ma anche l’atmosfera mitologica, antica e leggendaria, trasudante fascino nordico, necessaria alla saga asgardiana. Oppure, la scelta di Branagh, riadattare, pescare di qua e di là dalle migliaia di albi a fumetti, chiamare qualche nome altisonante (Hopkins) e reinventarsi il mito per, in sostanza, attualizzarlo.
Nulla di più sbagliato.
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Ci viene mostrato un dio del tuono giovane e arrogante, e fin qui ci siamo, anche se è una figura anacronistica, adatta al principio della mitologia nordica, i primi racconti, non certo al presente, all’attualità che vuole corrispondere il tempo di Asgard con il nostro presente sulla Terra. Abbastanza improbabile che un personaggio che, insieme a Odino e Loki e tutte le altre divinità, ha influenzato la sfera religiosa di intere popolazioni per millenni, sia ancora lontano dal maturare o dallo sviluppare la saggezza che gli occorre.
Ma le cose stanno così. In una scenografia sfarzosa, divinità dalle armature e acconciature improbabili dibattono sei sia o meno il caso che Odino (Anthony Hopkins) ceda il passo e lasci lo scettro del potere al primo dei suoi figli, Thor (Chris Hemsworth).
Ora, non bastasse il gap temporale, c’è da considerare che anche Loki è una divinità. E non una divinità qualunque, ma quella dell’Inganno. Ovvero, se non proprio una natura maligna, comunque possedeva un’aura misterica, sulfurea, che lo relegava, nel pantheon, a un ruolo ben preciso, inevitabile nella sfera umana, quello delle emozioni e delle volontà oscure.
Che Loki sia un personaggio negativo è un dato di fatto. Abbastanza strano, quindi, che nessuno ad Asgard sospetti di lui, quando i giganti invadono la città degli dei. E che, al contrario, ci venga presentato come un grande amico di Thor, e una sorta di figliol prodigo per Odino.
Che poi, è vero, Loki condivide con Thor alcune avventure, ma sempre nel tentativo di danneggiare il fratello.
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Rappresentazione branaghiana, quindi, davvero troppo sopra le righe, perché, ripeto, risulti credibile dal punto di vista cronologico e narrativo. Al punto in cui siamo, nel ventunesimo secolo, i giochi per gli dei asgardiani dovrebbero essere conclusi da parecchio. E dovrebbero essersi creati nuovi equilibri. E allora, o si ignora questo aspetto e si propende per la versione classica della Marvel, che vuole un Thor che ancora deve imparare l’umiltà, confinato sulla terra dal padre e che vive una doppia identità, come Superman. Oppure ci si affida a Simonson.
Questi l’aveva capito benissimo, pur restando attaccato alla sfera norrena, riproponendo per Asgard un’architettura lignea, confacente alla civiltà scandinava, e ripescando vecchi miti, addirittura il Ragnarok, il crepuscolo degli dei, associandolo a invenzioni moderne, scritte di suo pugno. Branagh e il marketing invece no. Infatti, ciò che ci viene offerto è una spettacolare, questo sì, messinscena, ma in fin dei conti vuota, che nulla possiede, né si sforza di possedere delle epica genuina delle leggende nordiche.
Più e più volte si sfocia nel farsesco, con Thor relegato al ruolo di alieno biondo e cazzuto che fa sbavare Natalie Portman, scienziata che s’è ritirata nel deserto per studiare i tunnel spazio-temporali, quasi che lui fosse l’unico uomo visto in almeno una dozzina di anni.
Thor il bell’addormentato, a caccia del suo martello dal quale il padre degli dei l’ha opportunamente separato, per permettere alla sceneggiatura di arrampicarsi su sé stessa per almeno un’ora, circondato dai suoi amiketty, Fandral, Hogun, Volstagg e Sif, che sembrano usciti pari pari dalla versione jacksoniana de Il Signore degli Anelli. E non vi sbagliate, questi ultimi sono personaggioni, nel fumetto. Sif è l’amore inespresso di Thor, Volstagg un guerriero fortissimo e grassissimo, pesa talmente tanto che nessuno, quando decide di sedersi, riesce a spostarlo, neppure gli dei. E tutti sono inseriti nel giusto contesto, non umano, ma epico.
Ma qui la volontà dominante è quella di spianare la strada verso il film sui Vendicatori, con tutte le conseguenze commerciali che si possono immaginare.
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