Qui sotto, invece, c'è uno screen-shot di "Cut", secondo episodio del film, diretto dal fecondissimo regista sudcoreano Park Chan-wook. Non dirò mai male abbastanza di questo film. Maldestro, caricaturale e ai limiti dell' insulso, il film è un calderone di cose già viste (e persino usurate) trattate con palese tossicità. Già in "Old boy" il regista aveva mostrato uno stile furbescamente "composito", una sorta di fetido, lussureggiante potpourri, in cui deliziose crudeltà e schegge d' alto cinema obliavano efficacemente le banalità della narrazione. Stavolta il regista può usare tutti i pavimenti a scacchiera della terra e pezzi d'arredo pomposamente kitsch, ma il film non c'è proprio. Infelice. Monocorde. Nato in un grembo improvvisamente sterile.
La chiusura del concept è affidata (chiaramente) a Takashi Miike, regista nipponico dalla cifra stilistica inconfondibile, instabilmente autolesionista, sontuosamente macabro e con un talento fuori del comune nel contaminare il tipico film di genere con gli stilemi del cinema autoriale. Per "Box" è chiamato ad aprire uno dei suoi cento occhi (Miike deve avere sotto la pelle le pupille di Argo a giudicare dalle variazioni che sa fare sullo stesso tema). Vanità puramente estetiche si piantano negli occhi dello spettatore in una quarantina di minuti fumosi e inquinati, che poco o nulla raccontano della storia di Kyoto, la giovane protagonista, con l' espediente (denaturato) delle condensazioni oniriche. Ancora una volta il tema del doppio e dell' alterità, ancora bizzarre depravazioni e un finale sospeso tra il mondo dei freaks e quello delle fiabe. Che pensare?E' fatto di purissimo nulla, ma è sempre un film di Miike. (Uno che gli occhi sa farli godere)
Citazioni memorabili: -"You are rich, but I'm free" (Zia Mei, in Dumplings)





