«Originariamente le parole erano magie» - scrive Sigmund Freud nell’Introduzione alla psicoanalisi - e l’intenso romanzo d’esordio del giornalista Daniele Bresciani, Ti volevo dire, (Rizzoli 2013, pagg. 370] conferma, ad ogni pagina, il potere taumaturgico delle parole, che possono miracolosamente salvare, anche quando non ci sono più.
Milano, 8 febbraio 2010. Brighton, 6 agosto 1980. Due città, due destini, una figlia e un papà, Viola e Giacomo, protagonisti di due storie separate da trent’anni, ma raccontate in parallelo, a capitoli alternati.
Giacomo vive un anno in Inghilterra, prima a Brighton per una vacanza studio, poi a Londra per lavoro, dove divide l’appartamento con un ragazzo italiano, Fulvio, nume tutelare della sua vita e di questo romanzo. Si trova a Londra quasi per caso, come tutte le scelte della sua vita, “a naughty boy”, a cui spesso manca il coraggio di decidere, di osare, per paura o per pudore. La Londra di Giacomo è quella dei Pink Floyd e di David Bowie – memorabile il racconto del concerto finale della tournée di The Wall alla Earl’s Court Arena il 17 giugno 1981 – ma anche quella di James Taylor e Bob Dylan, che sfidano Lady Gaga e Beyoncé, amate da Viola. Quest’ultima, quattordici anni, dopo la morte del papà, non parla più. Mutismo selettivo, lo chiamano i medici, in realtà, quelle parole che non vengono più fuori celano un bisogno assoluto di essere capita e amata. La mamma la iscrive in un collegio svizzero, affinché possa essere curata meglio e Viola parte custodendo in valigia un regalo inaspettato, un filo invisibile ma tenace che la unisce al suo papà: due agende, un libro antico, «rilegato in pelle, con fregi dorati sul dorso» e un pacchetto di lettere e di cartoline.
Nel collegio, sorretta dalla preziosa complicità della sua compagna di stanza Leslie, Viola leggerà ogni parola dei diari e delle lettere di suo padre, rivivrà la vita di un uomo che non conosceva davvero e scoprirà un nuovo papà, felice, forse, per l’unica volta nella sua vita, come dimostra una foto in bianco e nero, simbolo meraviglioso di un passato che Viola ignorava, «in cui papà, giovanissimo, rideva rovesciando indietro la testa. Era su una panchina di legno in un parco mentre una ragazza, di spalle, correva per sedersi accanto a lui. La sua grossa treccia bionda, ruotando, aveva creato una scia luminosa».
Chi è la ragazza dalla treccia bionda? Forse la stessa destinataria di una lettera che Giacomo non ha avuto tempo di spedire? Viola, costretta a mettere per iscritto le sue risposte super stringate – senza volerlo, ci obbliga a riflettere sulle parole che sprechiamo ogni giorno – tanto ancora dovrà conoscere, ritrovando magicamente la voce del padre in una barba bionda e in una carezza. E, chissà, anche la sua...
Bresciani riesce ad esplorare con rara delicatezza i sentimenti e ad inoltrarsi in quel campo fragilissimo che è il rapporto tra genitori e figli: le paure, le difficoltà di amarli come vorremmo, il preferire, spesso, il non dire e il non chiedere, quasi a volerli proteggere o, piuttosto, a proteggerci. A questo romanzo il merito di farci rivivere un meraviglioso rito, oggi spesso dimenticato, quello di scrivere lettere. La pazienza di aspettare la risposta, immaginare l’emozione degli occhi che leggono, annusare la carta per ritrovare il profumo del nostro mittente, imparare a cogliere dalla grafia un turbamento.
E, insieme alle lettere, la passione per i libri antichi. Sicuramente anche Giacomo, il librario di Flaubert, si sarebbe innamorato della libreria antiquaria dello zio Alan ad Arundel, soprattutto della vetrinetta o di un armadio nascosto dove erano custoditi i libri veramente preziosi: «là stavano le piccole perle»...
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