Magazine Diario personale

Tifiamo asteroide

Da Matteotelara

Un’iniziativa di alcuni giorni fa della wumingfoundation per scrivere ed inviare entro domenica 16 Giugno (oggi) una storia dal seguente finale:
Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Enrico Letta, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.

I racconti, che devono appartenere almeno parzialmente al genere fantascientifico, verranno poi raccolti in un instant ebook. (Tutte le informazioni qui).

All’ultimo momento ho deciso di partecipare.
Ecco la mia storia.

Il cancello si aprì e l’auto cominciò a risalire il vialetto in direzione della villa. Aveva appena smesso di piovere, e il silenzio improvviso, interrotto dal suono dei penomatici sulla ghiaia bagnata, risvegliò l’uomo dal suo torpore. La notte era anonima e nera. La luce dei lampioni sufficiente a far riconoscere il percorso.
L’auto si fermò ai piedi di una scalinata. L’autista scese, girò intorno alla macchina e andò ad aprire la portiera del passeggero. “Buonanotte Presidente” disse.
L’altro ricambiò il saluto e si avviò verso il portone. Ripercorreva nella memoria le immagini viste poco prima in televisone. Intorno a lui, sugli angoli della casa, gli addetti alla sicurezza si scambiavano messaggi in codice. Dalle stanze della cucina proveniva un lontano sottofondo di musica classica.
“Presidente” disse l’addetta alla servitù non appena lo vide metter piede nella hall. “La sua cena-”
“Non adesso Mariella” la interruppe l’uomo.
La donna non disse nulla. L’uomo controllò le lancette dell’orologio in fondo alle scale. “Per cortesia, avverta la signora che salirò in camera più tardi”. Poi raggiunse una porta sul lato opposto del salone e si sottrasse alla vista dei presenti.
All’interno dello studio le luci si accesero all’istante. I dipinti appesi alle pareti sembravano osservarlo. C’erano sculture d’epoca romana appoggiate su piedistalli di granito, pile di documenti che fuoriuscivano dalle cartelle ammassate sulla scrivania.
L’uomo si fermò davanti a un busto di Giulio Cesare e passò le dita sulla corona d’alloro. Premette con forza su una delle foglie e sentì come risposta, sul lato opposto dello studio, il clac della libreria che si distaccava dalle pareti. “Non voglio essere disturbato da nessuno e per nessuna ragione” disse all’interfono. Era comparso un ascensore alle spalle della libreria. L’uomo vi entrò.
Anche questo, il quel tempo oramai passato che sempre più maliconicamente ricordava, aveva fatto parte di una precisa e grandiosa ritualità: lo scendere nelle viscere della terra, dieci, venti metri sotto le fondamenta della villa, dove ad aspettarlo c’era l’esatta geometria delle sale e delle strumentazioni in esse contenute. Anch’esso come tutto parte del grande sogno perfetto, dei bagni crioconservativi, delle sedute radianti, dei raggi azzurri e delle notti passate al galactofono.
“OCI” disse rivolgendosi all’acciaio delle pareti.
“Buonasera Presidente”.
“Accendi gli schermi liquidi e prepara la vasca crioconservativa”.
“Niente trattamento dermoriduttivo questa sera, Presidente?”
L’uomo guardò il pavimento ruotare e le pareti dividersi, la vasca scendere dalla cavità che si era aperta nel soffitto: “niente trattamento” disse.
“Come preferisce Presidente”.
Era una voce femminile, calda e profonda. Ma anche, in una qualche impercettibile e – col tempo se n’era andato sempre più convincendo – fastidiosa maniera, metallica. Risultato a sua volta di un obiettivo mai realizzato. Un progetto, quello della donna ideale, mai portato a termine, e nel nome del quale erano state organizzate feste e cene a cui i suoi collaboratori avevano condotto ogni volta i soggetti selezionati. Divertente, misteriosa, sensuale, timida, ma anche briosa, superficiale, oca, troia. La donna perfetta doveva essere tutto e il contrario di tutto.
L’uomo entrò con lentezza nella vasca, e il pube, al contatto col liquido, s’irrigidì leggermente.
Ma prima di tutto questo c’era stato anche dell’altro.
C’era stato, in primo luogo, il progetto della base sotterranea da cui ogni cosa avrebbe dovuto essere organizzata: il sogno coltivato fin da bambino, quando chiuso nell’armadio dei genitori, con la pila a penzoloni dalla bocca, leggeva le storie della Marvel immaginando che un giorno sarebbe diventato Bruce Wayne.
Poi, cos’era successo poi?
Poi i bagni crioconservativi si erano rivelati incapaci d’interrompere la vecchiaia, il galactofono non era riuscito a farlo parlare con Dio e i raggi azzurri non l’avevano spinto oltre i margini dell’universo.
“E adesso anche questo” mormorò, ripensando al video del capo del governo che usciva da un ristorante dandosi il cinque con un leader della sinistra. “Il cinque!”, ringhiò. Come se non fossi stato lui, lui!, il primo a introdurre il principio dell’informalità negli apparati di governo…
“Presidente” disse la voce di OCI, “la prego, si rilassi. Cerchi di non pensare più a nulla”.
L’uomo riappoggiò la nuca alla base della vasca e chiuse gli occhi. Ecco, piano piano. Piano piano la mente si stava distendendo. Piano piano tutto stava ritornando sotto controllo.
“Amoreeeee? Amoruccio sei lì?”
Maledizione. L’uomo riemerse dal liquido e schiacciò il pulsante sul bordo della vasca. Ma non aveva detto a Mariella che non voleva essere disturbato da nessuno?
“Cara”, disse cercando di mantenere il tono della voce più pacato possibile, “sono nello studio, ho ancora del lavoro da fare”.
“Ma amoruccio… Io qui da sola mi annoio”.
L’uomo riprese fiato. “Guarda la televisione, tesoro, leggi una rivista, fatti le unghie, poi quando vengo su mi racconti dove sei andata a fare shopping questa settimana. Sei andata a fare shopping giusto?”
La voce sembrò essere rimasta sorpresa dalla domanda.
“Sì che ci sono andata”.
“E allora!, non hai comprato tutte quelle cosine di cui mi parlavi sempre?”
“Sì che le ho comprate”.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Ma amoruccio, io senza di te non voglio più andare da nessuna parte. È da una settimana che sei a Roma. Io quando vai a Roma…” piagnucolò, “mi sei mancato da morire, e i giornali dicono che hai un’altra”.
“I giornali s’inventano le cose, lo sai”.
“Ma ti sono mancata anch’io o no?, da morire intendo.”
“Certo che mi sei mancata”.
“E perché allora non mi hai chiamata? Ero così in pensiero…”
“Ma se ti ho chiamata appena sceso dall’aereo, non ricordi? Ti ho detto d’andare a letto e non aspettarmi sveglia”.
“E invece si dà il caso che sono sveglia, sveglia sveglia sveglia”.
L’uomo sospirò.
“E va bene” disse. “Dammi un quarto d’ora ok? Intanto mettiti il cinturino con le borchie intorno al collo. Se ti addormenti ci penso io a svegliarti”.
“Lo prometti?”
“Promesso”.
“Doppia croce baciata sul cuore e ritorno?”
L’uomo tacque.
“Allora ti aspetto tra un quarto d’ora con le borchie al collo”.
“Brava”. E spense l’interfono.
‘Ci mancava anche questa’ masticò uscendo dalla vasca e dirigendosi verso il guardaroba. Alle sue spalle la piattaforma aveva ricominciato a salire verso il soffitto.
“OCI” disse, “per stasera il mio bagno finisce qui”.
“Ma presidente, il bagno crioconservativo è fon-”.
“Lo so OCI. Il bagno crioconservativo è fondamentale per mantenere il mio equilibrio cellullare. Ma cosa vogliamo farci? Evidentemente non è serata”.
“Non vuole neppure che le accenda il galactofono?” chiese la voce.
Il galactofono. L’uomo sentì un principio di rabbia riaccenderglisi nella testa. Il galactofono era stato la sua delusione più profonda. Lo strumento che avrebbe dovuto farlo parlare con dio: e invece, a parte un cenno d’assenso – come una specie di fruscio – udito una notte di molti anni prima, non aveva mai più dato segni di funzionamento.
Era dunque tutto qui? Era dunque questa la ragione per cui ogni uomo veniva messo al mondo e anelava a rimanervi il più possibile?
‘L’orrore’ ragionò avviandosi verso l’ascensore, ‘l’orrore…’
Ma al suono di quelle parole sentì rinascere dentro di sé un senso di conforto. Come se qualcosa di lontano avesse ricominciato in quel momento a parlargli. Era la certezza, provata da bambino, che ci fosse un luogo dove il bagno crioconservativo funzionava, la donna ideale esisteva e il galactofono comunicava con Dio.
“OCI” disse, “spegni l’interfono ed entra in modalità stand-by”.
Quando le porte dell’ascensore si riaprirono era in una stanzetta dal soffitto basso e dall’arredamento modesto. Da una parte c’era un tavolino in formica con sopra una serie di plichi. Dall’altra, contro un muro, il vecchio armadio dei genitori.
L’uomo si diresse verso il tavolo e passò in rassegna i plichi. V’era riportata, su di ognuno, una parola: “Bersani” lesse sul primo, e scosse la testa. Aveva passato anni a cercare di cavar fuori da quel nome un’opera di qualità. Alla fine invece si era ritrovato tra le mani una raccolta di raccontini brevi e senza spessore, che oscillavano tutti tra il farsesco e il superficiale: nulla, in confronto all’epica in quattro tomi che gli aveva saputo ispirare il suo predecessore “Romano”.
Sul plico successivo c’era scritto “Travaglio”. Era quello che negli ultimi tempi gli aveva dato le maggiori soddisfazioni. Ne aveva tratto un personaggio complesso, una sorta di supereroe sfigato ma incredibilmente cocciuto, che sfidava nemici più grandi di lui in tenzoni da cui usciva ogni volta sconfitto. Travaglio era un eroe moderno, un prometeo contemporaneo: in lotta con un potere di cui non riusciva mai ad intuire propriamente l’entità.
Vide poi il plico “Bocassini”, ma l’uomo vi distolse lo sguardo all’istante. Al suo interno l’inizio di una distopia che non aveva mai superato i primi paragrafi. Materia scottante, con cui non amava avere a che fare.
Infine sollevò l’ultimo plico, quello ancora senza nome. Prese una penna, staccò la pellicola di plastica che ricopriva l’area per l’intestazione e scrisse “Letta”.
L’idea aveva cominciato a balenargli nella testa davanti alle immagini televisive. Un principio d’ispirazione, niente di più. Ma abbastanza da cominciare a lavorarci sopra.
Ci sarebbe stato il suono prepotente di una musica, magari una delle sue canzoni. Poi sarebbe arrivato il cataclisma, la fine di tutto, lui che imbracciava il galactofono e convinceva dio a risparmiare il mondo. Dentro ci avrebbe messo i cavalieri dell’Apocalisse, le tremende oscurità dell’animo umano, la televisione, l’editoria, qualche accenno al complotto, un po’ di figa e l’annullamento perpetuo dell’imu.
Aprì l’armadio e vi entrò. Si raggomitolò alla sua base, con una pila stretta tra i denti, roteò la penna per pochi istanti e cominciò a scrivere:
“Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Enrico Letta, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero”.


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