La cosiddetta Villa di Tigellio, uno dei più importanti siti di edilizia abitativa della Sardegna romana, è in realtà un complesso residenziale composto da tre edifici distinti. L’attribuzione al poeta, cantore e musico Tigellio, cagliaritano trasferitosi a Roma ai tempi di Giulio Cesare, è stata fatta sulla base di una biografia, rivelatasi falsa, pubblicata da Pietro Martini nel 1865 e attribuita a un tale Sertorio, che asseriva dell’acquisto di terreni da parte dell’artista cagliaritano proprio nell’area dell’insediamento residenziale, non distante dall’Anfiteatro romano di Cagliari. Sull’onda di tale pubblicazione, il canonico Giovanni Spano intraprese una campagna di scavi, riportando alla luce una parte del complesso che, da allora, viene chiamato comunemente Villa di Tigellio.
Di questa figura d’artista abbiano notizie da due campioni della cultura latina: Cicerone e Orazio. Notizie poco lusinghiere, per la verità, ma l’autorevolezza delle fonti è comunque indice della popolarità che il rapsodo cagliaritano aveva raggiunto a Roma, nei tempi turbolenti del passaggio dalla Repubblica all’Impero. Il grande oratore arpinate, mai tenero con i sardi, definì l’artista “pestilenziale più della sua terra” e “pezzente che vuole apparire signore”. Alla base di tale definizione, oltre al malcelato razzismo nei confronti dei sardi, sempre presente negli scritti ciceroniani, vi era una diatriba giuridica: un ricco possidente imparentato con Tigellio, Famea, aveva chiesto il patrocinio di Cicerone per una causa, tramite intercessione dell’artista cagliaritano. Famea, a suo tempo, aveva sostenuto generosamente una campagna elettorale del grande oratore. Cicerone accettò, salvo poi tirarsi indietro quando si rese conto che i tempi coincidevano con una causa contro Sestio, colui che si era speso più d’ogni altro per il rientro di Cicerone dall’esilio. Tigellio se la prese a male e citò l’oratore in giudizio. Cicerone, pur mantenendo il suo atteggiamento di disprezzo, si preoccupò dell’ostilità di Tigellio, in quanto l’artista era “familiarissimus Caesaris” e avrebbe potuto discreditarlo agli occhi del grande condottiero.
Orazio scrisse del nostro divo nelle Satire. Più precisamente, accanto a un Tigellio sardo, scrisse di un Tigellio Ermogene, in passato identificato con lo stesso artista cagliaritano. Gli storici contemporanei, salvo rari pareri discordi, hanno stabilito trattarsi di due artisti distinti, essendo stato Ermogene, con ogni probabilità, un liberto di Tigellio, da questi introdotto all’arte. Difatti, Orazio scrisse di Tigellio sardo sempre al passato, descrivendone perfino il corteo funebre, mentre di Ermogene ne scrisse in termini di contemporaneità. In particolare, descrisse il nostro Tigellio come l’emblema della discontinuità, capace di passare dal lusso alla sobrietà senza batter ciglio, succube del proprio estro al punto di cantare per ore quando non gli veniva richiesto e di negarsi quando veniva implorato, foss’anche dallo stesso imperatore Ottaviano. Inoltre, Orazio ci ha lasciato un quadretto minuzioso e caricaturale del mesto corteo funebre che ne accompagnò il feretro, composto da una fauna di derelitti, ciarlatani, artistucoli e donne di facili costumi.
Da tutto ciò si evince che Tigellio fu un artista acclamato e invidiato, in rapporti confidenziali con Giulio Cesare e con l’imperatore Ottaviano, per questo temuto dai suoi stessi denigratori. Il suo repertorio era composto perlopiù da canti in onore di Bacco, ma è verosimile che nelle sue interpretazioni ci fossero influenze della tradizione sarda, sia nella modulazione della voce che per l’utilizzo di flauti polifonici del tutto simili alle Launeddas. In definitiva, emerge la figura di un artista popolare, di puro intrattenimento, ma grande conoscitore delle tecniche, a suo agio sia col popolino che coi potenti, ma del tutto alieno all’establishment intellettuale ufficiale.