“Tina, hermana, no duermes“, scolpì un commosso Pablo Neruda sulla tua pietra tombale. Tina Modotti, fotografa, rivoluzionaria, donna libera. Tina, sorella, fragil vida, sarò poco poeta, ma io invece preferirei che tu dormissi profondamente, per non vedere quel che si continua a combinare in tuo nome.
Un’intera edizione di uno dei molti festival dell’erotismo più o meno patinato e culturalizzato, MaraveeEros, in corso tra Friuli e Slovenia, è dedicato a te, ma non proprio a te, è dedicato all’idea di te che avresti detestato, anzi che hai detestato quand’eri in vita, e non l’hai mandato a dire.
“All’insegna di un eros sottile, declinato in passione e dedizione carnale, intellettuale e sensoriale” si ricorda dunque il settantesimo anniversario della tua morte. Così leggo.
Non ho visto le mostre della manifestazione, neanche quelle che ti riguardano, ma questo non è un giudizio sul valore artistico. È una riflessione sullo sfruttamento artificioso di miti distorti, o meglio ancora una riflessione sul self-service spensierato delle mitologie, al servizio dei gusti più facili.
Ogni autore, intendiamoci, ha il diritto di impastare come vuole, anche con prestiti e riferimenti, la propria poetica, non sto invocando censure neanche intellettuali, che tu per prima non avresti autorizzato. Lasciami però osservare con malinconia che ripetute, univoche e riduttive letture “erotiche” della tua vita, Tina, hanno ormai compiuto il triste miracolo di ridurti a una specie di playmate per acculturati.
Leggendo il concept dell’evento, infatti, su di te c’è da aspettarsi questo: “Ritratti di Tina Modotti, complessivamente omaggiati, nella loro sensualità femminea, da immagini coloratissime di fiori carnosi e ambigui, spesso tesi fra petali e sesso”. Il quadro di riferimento diciamo sensoriale è chiaro.
Del resto, ti si definisce “fotografa e rivoluzionaria, che visse e operò tra avventura e sacrificio, sangue e romanticismo, intrigo e morte, acclamata dai giornali dell’epoca come bellezza sensuale ed esotica”, snocciolando con prevedibile monotonia la montagna di etichette da B-movie e di mitologie para-romantiche e vagamente morbose, in gran parte abusive e sovracostruite dopo la tua morte, che da tempo sommergono la tua vera vita di artista e fotografa straordinaria ma perduta in un’epoca che non aveva posto per te.
Etichette, mitologie e sbirciamenti maschilissimi, s’intende (stupisce che la curatrice dell’evento sia una donna, ed anche una studiosa molto apprezzata di fotografia). Sguardi maschili continuano a ignorare le fotografie che hai fatto, e a mangiarsi con gli occhi quelle che ti fece Edward Weston sull’azotea della vostra casa messicana, quei nudi di cui approfittò per trattarti poco meno che da puttana, prima di cacciarti dal Messico, un governo autoritario che non avrebbe potuto capire, neanche volendo, la poetica dell’oggetto perfetto di Weston, la metamorfosi dello sguardo fotografico che scorreva le superfici plastiche del tuo corpo come quelle delle dune di sabbia, delle agavi, dei peperoni.
Scusa l’irritazione, Tina. Tu fosti più signorile quando, in viaggio per l’esilio, assediata dai giornalisti (maschi) americani eccitati dalla tua striking beauty, che ti adulavano ipocritamente ripetendoti quanto tu fossi “carina”, rispondesti sbrigativa e superiore: “Non vedo cosa la carineria abbia a che fare col movimento rivoluzionario”. Io mi irrito perché questa tua trasformazione in una specie di seducente Mata Hari comunista, arrapante diva di Hollywood, icona sensuale scatenatrice di wet dreams, questa tua celebrazione-negazione va avanti da troppo tempo.
Ricordo qualche anno fa, a Bologna, la mostra di una galleria d’arte di piazza Santo Stefano che si ispirò a te per una collettiva di artisti testuali e visuali, a me personalmente sconosciuti. Si annunciò al pubblico con un invito su cui compariva una signorina ovviamente senza vestiti, e offriva ai visitatori un catalogo tenuto insieme da un nastro di pizzo nero che sembrava il cascame di una sfilata di lingerie da supermercato.Sfogliando catalogo e sito si incontravano ritratti di donne pettinate come te, ma più lugubri di te, altre signorine spogliate, un po’ di fiori ovviamente sensuali, poesie calligrafate di traverso e altre che declamavano ispirate (presi nota di qualche verso immortale) “è il pelo che rammenta che sei umana” e altre rime di cui non vi sfuggirà il fascino, come “il tuo culo è tanto più bello di un rullo di tamburo”.
Tina, sorella, di te si è scritto tanto, forse tutto, forse troppo, ti hanno fatto diventare un’icona passepartout dai mille usi, e quesllo erotico purtroppo sembra il più diffuso. E questo è avvenuto, proprio come tu detestavi, perché eri bellissima, e alle grandi donne la bellezza non viene mai perdonata.
Povera Tina, per chi ti hanno presa? Perché ti hanno messo in mezzo, Tina? Mai come ora rimpiango di non poter più avere il parere di un tuo devoto che conobbi troppo poco, Riccardo Toffoletti, animatore culturale che era proprio di quelle terre friulane. Ma abbiamo ancora fra noi un amico in comune, un tuo precoce biografo e narratore che di te s’interessò quando questa mattana pruriginosa non era ancora partita, si chiama Pino Cacucci e davvero mi piacerebbe che dicesse qualcosa su questa malinconica deriva che ti ghermisce e ti porta lontano da te, da quel che eri.
Scriveva qualcuno nella presentazione di quella desolante mostra bolognese che pensando a te “ricordo, sogno e immaginazione si riflettono, tra il pancreas e il cuore”. A me invece fa male il fegato. Tina, hermana, intenta dormir si puedes.
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