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L’esercito israeliano ha diffuso un’analisi più dettagliata sull’operazione Protective Edge, che dall’8 luglio al 26 agosto ha interessato Gaza. È abitudine dell’IDF rendere noti i dati delle proprie operazioni a bocce ferme: queste analisi hanno permesso in passato di scoprire realtà spesso travisate nella confusione (e nell’immediatezza) del conflitto, quando molte informazioni escono deviate dalla propaganda di Hamas – e capita pure, dall’istintiva posizione anti-israeliana che caratterizza un certo genere di stampa e di opinione pubblica.
Dalle ricostruzioni formali dell’esercito di Tel Aviv, l’operazione è costata la vita a 2127 palestinesi: di questi 706 civili e 616 militanti di Hamas, mentre 805 sono stati elencati come sconosciuti. Si tratterebbe di persone che non erano presenti in elenchi delle forze di sicurezza israeliane e per cui non è stato possibile ricostruire legami (postumi) con i gruppi terroristici locali. È presumibile che molti di questi siano civili – mentre gli altri militanti quiescenti (riservisti impegnati in casi di estrema emergenza e “non noti”) oppure forze nuove. Il numero dei civili dovrebbe essere tra 55 e 60 per cento, comunque.
A tale proposito sono state riportate documentazioni di interrogatori operati dallo Shin Bet (Israel Security Agency, ISA) a membri dell’organizzazione, che hanno ammesso di utilizzare luoghi civili per nascondersi e per stoccare armi. La presenza dei terroristi tra la popolazione, è stata più volte tirata in ballo da Israele durante i 50 giorni di guerra, tanto che Tel Aviv aveva denunciato l’utilizzo di scudi umani.
IDF nei suoi report sostiene di aver distrutto 32 tunnel: un numero che non corrisponderebbe al totale delle caverne scavate dalle talpe di Hamas – questo è un obiettivo fallito, dato che Israele aveva messo in cima alla lista la completa eliminazione dei varchi sotterranei palestinesi. L’arsenale di razzi in mano ai jihadisti della Striscia, invece, ha subito un colpo estremo: sia perché molti ne sono stati lanciati (negli ultimi giorni si sono superati spesso i 100 missili al dì), sia perché molti sono stati rinvenuti e distrutti.
Dalle analisti post-intervento si evince l’ampia diffusione della prassi delle “strutture civili come nascondiglio per uomini e armamenti” (anche se non è di certo una rivelazione e una scoperta ottenuta con Protective Edge: Hamas ha una storia ben documentata sullo sfruttamento dei civili a protezione degli “affari” militari). Diversi terroristi di Hamas hanno confessato di usare moschee e ospedali come “basi”.
Abd Al-Rahman Ba’aloosha, membro di Hamas interrogato dall’ISA, ha ammesso che i combattenti si sono regolarmente riuniti nelle moschee di Al-Safa e Al-Abra di Khan Yunis per organizzare gli attacchi – il luoghi di culto, inoltre, sarebbero state un punto di reclutamento e un luogo di addestramento per i “novellini” delle brigate Qassam (nemmeno queste sono grosse novità).
Durante l’operazione IDF ha documentato il lancio di missili da moschee e giardini attigui, così come ha mostrato la presenza nei locali di preghiera di armamenti (RPG, AK47 e mitragliatrici) e di ingressi ai tunnel. Un’altra operativa di Hamas ha ammesso che anche gli ospedali e le scuole – tra cui gli ospedali Nasser e Hilal di Khan Yunis – sono stati utilizzati per gli stessi scopi. Negli ospedali sarebbero stati anche nascosti diversi leader del movimento, circondati da guardie in abiti civili. Secondo le ricostruzioni ottenute da gole profonde palestinesi, nei giorni degli scontri, Hamas avrebbe trasformato il Wafa Hospital, un edificio civile nel quartiere Shuja’iya di Gaza City, in un centro di comando (sito di lancio dei razzi, punto di osservazione, postazione di cecchini, deposito di armi, copertura per i tunnel, e una base generale per gli attacchi contro Israele e le forze IDF). Un altro terrorista, Samir Abu Luli, ha ammesso che durante le operazioni i comandanti del braccio palestinese della Fratellanza, erano basati all’ospedale al-Najar di Rafah: ai pazienti era stato impedito l’ingresso e i malati presenti sono stati cacciati fuori (stando al racconto di un altro terrorista interrogato dall’ISA, Nafez Shaluf).
Secondo quanto emerso dall’interrogatorio dei terroristi Afif e Ahmed Jarrah, uno dei tunnel costruiti da Hamas aveva sbocco a pochi passi da un parco giochi di Beit Lahia: lo scopo era quello di effettuare blitz improvvisi per rapimenti.
Nonostante la realtà di tali evidenze, l’operazione israeliana non è stata un successo, né dal punto di vista militare, né da quello politico (sia interno che internazionale).
Militarmente Hamas ha subìto un duro colpo, con diverse infrastrutture sotterranee distrutte e l’arsenale missilistico depauperato (sia per i lanci che per i sequestri). Tuttavia l’organizzazione, secondo le stime, conta su circa 16 mila combattenti, rispetto alle poche centinaia rimaste uccise durante il conflitto. Uomini che sono pronti a rimettersi all’opera, costruendo nuovi tunnel e nuovi armamenti – con l’aiuto dichiarato dell’Iran, che ha utilizzato il proxy dell’abbattimento del drone su Natanz per giustificare i nuovi finanziamenti militari ai palestinesi.
Allo stesso tempo, il fiasco politico è stato altrettanto potente. Dal punto di vista mediatico internazionale, le immagini che sono arrivate dalle strade di Gaza hanno prodotto indignazione a livello globale – sebbene in molti casi sono state confuse, con più o meno volontà, tra quelle del conflitto siriano e “filtrate” dalla propaganda anti-israeliana. Risultato: Israele torna ad essere visto come un paese militarista, violento ed oppressore, in molte parti del mondo (e tra molta opinione pubblica).
In casa, Hamas è tornata ad avere consenso tra i palestinesi indignati dall’attacco israeliano (61%, il massimo dal 2007 dopo il calo continuativo che l’aveva portata al 35). E il problema è che il gruppo “va” non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania.
A tre giorni dal cessate il fuoco del 26 agosto, la Jihad Islamica palestinese, ha organizzato una parata in stile militare per le strade di Gaza City: dimostrazione di forza, non certo un segnale di pace. Il leader di Hamas Khaled Meshaal dal suo dorato rifugio in Qatar, continua a ripetere che non ci sarà nessun disarmo del gruppo («Le armi della resistenza sono sacre e non accetteremo che siano nell’agenda» ha detto), mentre Abu Mazen torna a far sentire la sua voce, tuonando sulle responsabilità dei jihadisti sulla guerra – necessità imposta anche dal ravvivamento dei consensi verso gli islamisti.
Il processo di pace è avviato da un paio di settimane, ma gli sviluppi recenti stanno rendendo sempre più improbabile un accordo definitivo. Con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che (forte anche delle analisi DIF) resta contrario a negoziare con qualsiasi governo di unità nazionale che includa Hamas (altra lettura della chiosa di Mazen, che potrebbe tentare di distaccarsi e minare il nuovo esecutivo dell’Anp), mentre i palestinesi furiosi sull’invasione di Gaza sono più propensi a schierarsi con i militanti.
Alla fine – a diritto di autodifesa garantito – Protective Edge sembra non sia stata una buona mossa per Israele, analisi IDF a parte.
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