I primi commenti stroncano il film italiano di Woody Allen. “To Rome with love” sarebbe imbarazzante: per citare la Pardo, è «la testimonianza definitiva dell’immagine oltreoceano di Roma e dell’Italia resa da un regista smagato e di mondo, non da uno yankee claustrofobico». La pellicola sarebbe un’apoteosi del prevedibile e dello stereotipo, in cui i giornalisti fanno domande idiote, si parla spesso di cucina e le donne sono incinte. I maschi, a pelo lungo, sono in canottiera e le femmine in sottoveste contenitiva, disorientate e fragili. Per Allen siamo ancora così. A me vengono i brividi. Non tanto per la paura di scoprire il declino senile di un regista amato, ma soprattutto per la ragione opposta: per la sensazione che Allen si sia limitato a fare come il bambino della celebre favola dei vestiti nuovi dell’imperatore, mostrandoci nella nostra nudità. Nulla da eccepire sui giornalisti opachi: asserviti e imbrigliati, in un Paese in cui la libertà di stampa è tenuta sotto scacco da gruppi imprenditoriali divenuti lobby politiche, i cronisti italiani si collocano al quarantesimo posto nelle classifiche di Reporter sans Frontières (dopo quelli del Benin, della Namibia, dell’Ecuador e dell’Uruguay). L’uomo in canottiera, dopo anni di bossismo celoduristico celebrato come motore della Seconda Repubblica, fa parte dell’immaginario collettivo come le giacche gialle di Formigoni e le sue camicie da narcotrafficante. L’ossessione culinaria invade i palinsesti televisivi dividendosi per fasce di pigri amanti del precotto e di estimatori della haute cuisine, dei risotti in foglia d’oro e delle uova marinate. Il cibo è occasione di convivialità e di corruzione, propulsore di uso anomalo delle vasche da bagno e di strani banchetti pagati da faccendieri. La gola non è reato, ma per Comunione e Liberazione non è più nemmeno peccato. La donna italiana perennemente incinta è uno stereotipo surclassato dalle statistiche sulla crescita zero. Tuttavia, tra farfalle tatuate e igieniste dentali, il cromosoma XX è in caduta libera. Appena ieri l’ex premier, dopo l’ultima udienza del processo Ruby, dichiarava con nonchalance che a casa sua si tenevano cene eleganti con camerieri, musici e gare di burlesque. Perché le donne, si sa, sono esibizioniste per natura. Le fragili creature sfarfallanti sono state salvate dal loro destino di perdizione da un mecenate generoso, raffinato, onesto: pagate per non prostituirsi, le esibizioniste di Arcore sono casi umani rovinati dalla magistratura di sinistra. Viene da chiedersi cosa pensi Dita von Teese della giustizia italiana e dei suoi imputati: only in Italy? Anche le prove tecniche di rigenerazione dei partiti consunti, cui stiamo assistendo impotenti nelle ultime ore, potrebbero essere state pensate dal Woody Allen dei tempi d’oro. La Lega esibisce quasi sprezzante i suoi diamanti, con tanto di certificato: per Bossi, dimissionario zombie, i soldi sono dei partiti ed è legittimo anche buttarli dalla finestra. Bobo Maroni, il ripulitore, indossa il cappello da cuoco e sfida Formigoni ai fornelli, giusto per tornare al tormentone culinario dell’oblio e del perdono. L’UdC muore come movimento postcattolico invischiato tra Caltagironi infernali e Finmeccanica, confluendo insieme a Fini e Rutelli (dimentico di Lusi) nel Partito della Nazione. Berlusconi, fresco di burlesque, annuncia tramite il fido Alfano la nascita di un nuovo soggetto politico ispirato al modello Obama: perché le nuove alleanze politiche, a detta del segretario senza quid, non profumano di aria fresca. Su quest’ultimo dettaglio, in verità, è impossibile dargli torto. Tardivamente Napolitano invita i partiti a risollevarsi dalla povertà culturale che lui stesso ha contribuito a creare. Spinti dall’analisi critica dei luoghi comuni da b-movie in cui ci siamo trasformati, dobbiamo chiederci fino a che punto la pantomima della palingenesi sia tollerabile senza invocare un rinnovamento radicale della cultura politica. Diversi decenni fa Carlo Tullio Altan segnalava in modo lucido la selezione negativa dei parlamentari da parte della nostra società civile. Difetto tipicamente italico, non stereotipico ma endemico, è la tendenza a cercare negli eletti esponenti di interessi di parte e non della collettività. La nostra politica è vittima da più di un secolo di consorterie di clientele, che impediscono la nascita della religione civile che Altan teorizzava: la formazione di una coscienza civile democratica matura, che ci emancipi dai clientelismi, dai conflitti di interesse e dagli uomini della provvidenza, che ci spinga a impegnarci personalmente per il benessere comune riconoscendoci con serenità nella vita pubblica, in una convivenza che non sia parodistica o addirittura oltraggiosa. Il momento della religione civile è giunto e non c’è tempo da perdere. Certo: non saremo più soggetti da film ma Woody Allen potrà benissimo, visti i risultati, fare a meno di noi. .
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