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Tolleranza.

Da Suster
Lei non tollera quando la si contraddice.
Non tollera che la si tocchi, e non sopporta esser presa in braccio dalle persone che non conosce, anzi, quasi da nessuno.
Non tollera che le cose siano diverse da come se le aspettava. Se per esempio quando di pomeriggio si sveglia dal suo sonnellino, io la sento svegliarsi ed entro in camera a salutarla, si infuria, perchè vuole invece scendere dal letto, accostarsi alla porta e bussare finché io non le apro: allora è convinta di avermi fatto proprio una bella sorpresa. Le ho scombussolato i piani, ho rovinato tutto.
Non tollera neanche di trovare in casa al suo risveglio qualcuno che non si aspettava: a lei non piace che le cose sfuggano al suo controllo. Come quando, qualche volta, uscendo dal nido, trova il padre ad aspettarla fuori, ché è venuto a farle una sorpresa.
E non le piace che le cambino i programmi.
Se ha puntato al parco l'altalena rossa libera da dieci metri di distanza e qualcuno glie la soffia da sotto il naso proprio quando sta per raggiungerla, non si accontenterà di quella blu, in tutto e per tutto uguale alla prima salvo che nell'essere un poco più bassa. Certo, magari se trovava libera solo quella sin dall'inizio...
Non è facile uscire dal proprio mondo, e accettare che altri, dall'esterno possano entrarvi, modificarlo, interferire con le nostre convinzioni.
La tolleranza si impara partendo da queste piccole cose.
Accettare che il mondo intorno possa essere diverso dall'immagine mentale che ce ne siamo fatti: accettare che l'altro è autonomo da noi e che può, eventualmente, esserci d'impiccio, ostacolarci, limitarci, impedirci di raggiungere un obiettivo o che ci costringa a trovare nuovi modi per esprimerci.
Lei ha, per dirlo come lo direbbe una madre ad un'altra, 20 mesi, o come dico io, farà due anni a luglio e ai suoi occhi differenze ed omogeneità non sono ancora chiare del tutto.
Ancora presto per parlare di altri tipi di "intolleranza".
Lei distingue le persone in: bimbi, bimbi grandi, 'agatti (ragazzi, anche se questo termine ancora non le è proprio del tutto chiaro), tigno'i e tigno'e (signori e signore) e al massimo nonni.
Ma "tigno'e" per lei è anche l'ambulante senegalese che ai giardini si avvicina per regalarle braccialetti di filo colorati, e per valutare dal mio livello di raffreddore la mia disponibilità ad acquistare fazzoletti di carta a 2€ il pacco. Quello non è un "tigno'e nero", solo un "tigno'e", come annota ad alta voce puntando il dito.
Mia figlia all'età di un anno e mezzo ha già vissuto un esperienza di interculturalità, durante il nostro mese di permanenza dalla famiglia del padre, e lì si è dovuta far andare molte cose, dal diverso modo di mangiare al diverso modo di approcciarsi a lei, ha dovuto scontrarsi col fatto che quando parlava non veniva capita o fraintesa, e malgrado io molto spesso soffrissi per lei e mi chiedessi se non fosse troppo piccola per tutti questi stravolgimenti, ho dovuto constatare che la sua adattabilità al contesto è stata assai maggiore della mia.
Chissà se il fatto di appartenere a queste due realtà, a questi due mondi, l'aiuterà nella vita anche ad accettare con più facilità la diversità da sé, ad adattarsi più facilmente a mondi e modi differenti di vivere e sentire, a non arroccarsi nella propria identità, ma ad utilizzarla come uno strumento di confronto e sicura di essa, predisporsi al nuovo, allo sconosciuto, alla ricchezza dell'infinitamente variabile.
A volte mi è capitato che le persone mi chiedessero: ma vostra figlia si sentirà più araba o più italiana? Ho sempre risposto che probabilmente mia figlia avrebbe avuto un diverso e più vasto concetto di identità: l'identità è la storia che ciascuno si porta dietro, che arricchisce il suo essere e consente di "dare" agli altri qualcosa di più di sé.
Riunire in sé due o più diversità per vedere le differenze come possibili convivenze di due realtà, e non come pericolose intrusioni nel nostro immutabile mondo.
Ai suoi occhi ancora non esiste una graduatoria di differenze: non ve ne sono di più lampanti, non ve n'è di squalificanti.
Educare alla tolleranza dunque potrebbe significare insegnare a vedere anche in sè la coesistenza di realtà molteplici e di molteplici apporti, e da questo partire per vedere nell'altrui diversità una possibile fonte di arricchimento di sé, di un sé in continuo mutamento e disponibile a nuovi stimoli e scambi, e non una passiva accettazione del diverso come qualcosa che "ci tocca sopportare", ci è vicino ma in fondo non ci riguarda, e va bene finché ognuno va per la sua strada.
Costruire una tolleranza che includa anche conoscenza dell'altro e comprensione del di lui mondo.
La riflessione sulla tolleranza mi è stata suggerita dall'iniziativa del blog Mens Sana.
L'ho sviluppata in riferimento al mondo di mia figlia, estrapolando da ciò che vedo quando la guardo farsi strada nel mondo, in un mondo che è fuori di lei, ma che la include, nella molteplicità delle sue forme.
Tolleranza.

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