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Tolstoj e Simenon non hanno bisogno di preamboli: sono, a ragione, tra gli autori più conosciuti e amati di tutti i tempi; né ci interessa instaurare confronti tra la concezione di letteratura dell’uno e dell’altro, ancor meno tra le loro (pur peculiari) vicende terrene. Entrambi affrontano in due brevi romanzi il tema della malattia e, incidentalmente, quelli della morte e del senso della vita, dell’ipocrisia dei rapporti sociali e della concezione distorta del successo. Da narratori autentici affrontano i paradossi senza la presunzione di scioglierli nella scrittura; così la pienezza dell’esistenza si realizza nel momento in cui il suo flusso lineare viene reciso, e così la realizzazione di sé prescinde dalla propria affermazione professionale e dai comuni parametri della rispettabilità.
Di Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910) ci si accontenta di avere in bella mostra in libreria Guerra e Pace o Anna Karenina, magari senza averli mai letti; si tratta di opere monumentali, anche in senso fisico, ed è comprensibile che incutano una certa distaccata riverenza. La morte di Ivan Il’ič invece è poco più di un racconto lungo, ma vi è tutta la grandezza di Tolstoj, la vena ironica e disincantata con cui descrive l’alta società russa ottocentesca, lo svisceramento di personaggi straordinari nella loro umana ordinarietà, il continuo interrogarsi su ciò che è verità e ciò che è finzione, su la misericordia di Dio e la pietà per gli uomini.
Ivan Il’ič è un consigliere di Corte d’appello a San Pietroburgo, all’apice della sua carriera; conosce le regole della buona società e ne calza le vesti compiaciuto, ben attento a reprimere i suoi “timidissimi tentativi di ribellione”. Eppure, quando una banale caduta lo immobilizzerà a letto, non riuscirà a non dare scandalo, rifiutandosi di accettare con mansuetudine il destino, facendo gravare sui famigliari la sua infelicità: dinanzi allo spettro della morte non potrà più essere occultata l’inanità dei rituali sociali, dovrà riconoscere che le mete che si era prefissato sono il risultato di una coscienza distorta.
“E più si andava avanti, più tutto era morto. Come se fosse disceso lentamente da una montagna, immaginandosi di salirla. Così era stato. Nell’opinione generale saliva, mentre la vita, di pari passo, se ne andava via da lui… E ora era finita, doveva morire!” (Lev Nikolaevič Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, RCS Editori)
Georges Simenon (1903-1989), celebre come l’autore del commissario Maigret, vanta una produzione letteraria sterminata (si racconta scrivesse oltre ottanta pagine al giorno!) e diversi capolavori, da Tre camere a Manhattan al Piccolo libraio di Archangelsk, dalla Neve era sporca alle Campane di Bicêtre. In quest’ultimo delicato romanzo è la malinconia la nota di sottofondo con cui il protagonista, René Maugras, ripercorre il proprio cammino; come Ivan Il’ič è un uomo che conta, è direttore del più prestigioso quotidiano parigino, ora costretto a letto, e di lì osserva senza alcuna compassione se stesso e le persone che si accostano al suo capezzale: “non è la propria salute quel che interessa a Maugras per il momento. Sono gli altri, di cui sente il bisogno di raschiar via la superficie, convinto, se ci riesce, di arrivare a vedere più chiaro in se stesso”.
Ma Simenon, diversamente da Tolstoj, concede al degente l’opportunità di un riscatto terreno, di rinnovare la sua scala di valori e, forse, di salvare la giovane moglie dalla deriva: “alla possibilità di votarsi al bene dell’intero genere umano lui non ci crede, questo è vero: ma non si può intravedere la possibilità, per ciascuno, di amare un solo essere e di renderlo felice?”; peccato, peccato che quest’ultima sia solo una nota del diario scritto da René durante l’infermità, una riflessione “che tra qualche mese non capirà più, o di cui si vergognerà” (Georges Simenon, Le Campane di Bicêtre, Adelphi).
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