Si può parlare d’identità sessuale e mondo infantile contemporaneamente? Cèline Sciamma ci è riuscita nel sorprendente Tomboy con pennellate leggere ma incisive, con un tocco forte e lieve allo stesso tempo. La sessualità non è più un tabù e la regista francese ne parla senza giudicare la sua protagonista. Laure ha 10 anni e si è da poco trasferita in un nuovo quartiere di Parigi insieme ai genitori e alla adorabile sorellina Jeanne. Ma un giorno dice ad una sua nuova amica, Lisa, di essere un maschi(acci)o e di chiamarsi Mickael. Così si veste da boy, gioca a calcio, sputa per terra, fa a cazzotti. Finchè un giorno l’altarino viene scoperto da sua madre…
Vincitore del Teddy Award al Festival di Berlino 2011 e dei premi come miglior film e film del pubblico al Torino Glbt Film Festival, Tomboy è un’opera coraggiosa che profuma di nuovo, realizzata con mezzi esigui, quasi d’avventura. Dimostrazione che il cinema è innanzitutto idea, soggetto, contenuto, prima ancora che tecnica, virtuosismo, trovata alla mdp. Ma questa semplicità non fa mancare momenti lirici. Basta citare la storta ripresa delle esili gambe da pinocchietto di Laure a penzoloni su un muretto o i suoi capelli (corti) al vento seduta sul tettuccio dell’auto del padre.
Un film che punta sulla vitalità dei suoi piccoli attori. E’ il caso della protagonista Zoé Héran. Ma anche del personaggio della sorellina, Jeanne, interpretato da Malonn Lévana, motore di battute comiche che fanno ridere con tenerezza la sala. Va in scena quella forza dei bambini già sentita nella combriccola di Tutti per uno di Romain Goupil.
Tomboy è un romanzo di formazione di un’identità in potenza, nel pieno del suo sviluppo, con tutte le sue incertezze e ingenuità. Tratta con guanti bianchi i temi dell’essere e dell’apparire, del voler essere e del voler apparire. Non c’è morale, né lezioncina ex cathedra, né messaggio di fondo. In quest’aura di neutralità, Cèline Sciamma si sofferma con castità e purezza di sguardo sul corpo della protagonista che si guarda e riguarda allo specchio, con lo stesso scrupolo distaccato e affettuoso praticato in Italia da Alice Rohrwacher nel suo splendido Corpo celeste. La 33enne regista francese quindi mostra e non giudica. E’ tutto pulito, candido, neutro. Troppo pulito, troppo candido, troppo neutro. E’ qui che, superato l’entusiasmo iniziale di aver visto un buonissimo film indipendente e un valido film “alternativo”, sta l’unica ruga evidente dell’opera. Sì, perché un colpo ultimo più netto non avrebbe certamente guastato. Ci si alza con l’amaro in bocca di chi sente che manca quel qualcosa che prende il nome di “presa di posizione”, quel qualcosa che stimola un vero dibattito interiore nello spettatore. Come se la regista non avesse avuto la forza di fare il balzo finale.
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