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"Topi, Matrix e Ologramma: il Mistero della Mente Collettiva"

Da Risveglioedizioni
Risveglio Edizioni, Libri, Spiritualità, Meditazione, Medicina, Cosmologia, Arte, Filosofia, Ufologia, Federico Bellini, Ambra Guerrucci, Osho, TV Uno degli studi che più ci affascina, e che in questi giorni ha bussato alla porta della nostra memoria (una metafora quanto mai azzeccata, come leggerete), è quella del cervello olonomico di Karl Pribram...
Una teoria molto discussa forse anche perché, per farla breve, giustificherebbe l’ipotesi secondo la quale ognuno di noi vive in una Matrix, in un campo di interconnessioni dove nulla è ciò che sembra. Una cosuccia non da poco. Gli studi di Pribram furono inaugurati da una domanda, che probabilmente molti di noi si sono fatti: dove avviene, esattamente, la percezione a livello cerebrale? Per tentare di rispondervi, Pribram si interessò agli studi di Karl Lashley, il padre fondatore della psicologia fisiologica nord-americana, volti alla comprensione della localizzazione degli engrammi, le tracce mnestiche depositarie dei contenuti informativi acquisiti. In pratica la sede della memoria, il nostro hard disk interno. Partendo dal principio secondo cui le funzioni psichiche fossero localizzabili, Lashley asportò una ad una le parti principali del cervello di alcuni topolini che avevano appreso un percorso complesso, fino a quando si accorse che perfino quando era stata danneggiata la maggior parte del cervello, deteriorato al punto da compromettere le loro abilità motorie, i topolini continuavano a ricordare il percorso. La memoria, quindi, sembrava essere distribuita in ogni parte del cervello, efficace ovunque nel medesimo modo. Dapprima suo allievo e poi assistente, Pribram successe a Lashley nel ruolo di direttore agli Yerkes Laboratories of Primate Biology; successivamente si trasferì all’Università di Yale, dove studiò la funzione della corteccia frontale nelle scimmie e, insieme alla più generale organizzazione del cervello, la percezione e l’origine della consapevolezza umana. Fu così che Pribram si concentrò sulla visione. Fino a quel momento la versione accettata e condivisa riguardo alla percezione visiva, voleva che essa avvenisse grazie alla messa a fuoco degli oggetti da parte del sistema sensoriale deputato a questo compito, riproducendone poi le caratteristiche a livello corticale ed inviando quindi l’informazione all’area visiva primaria. Lo abbiamo pensato tutti: a ben vedere, proprio come se avessimo una macchina fotografica interna che riproduce fedelmente le caratteristiche del mondo esterno di cui facciamo esperienza. Ci sbagliavamo. Nemmeno questi esperimenti portarono a validi risultati, o almeno, non nella direzione attesa. Essi mostrarono infatti che si poteva danneggiare quasi completamente tutto il nervo ottico di un gatto senza interferire in modo evidente con la sua capacità di vedere ciò che stava facendo, i suoi movimenti e così via. Con buona pace dei topi prima e dei gatti poi, gli esperimenti sulla visione – proprio come quelli sugli engrammi – mostrarono che basterebbe una piccola porzione rimasta inalterata del tratto ottico (come prima di tessuto cerebrale), per ricostruire l’informazione visiva (come prima la rievocazione della routine). Tutto questo chiaramente non è in accordo con quanto detto sulla macchina fotografica, che deve essere integra in ogni sua parte per poter fornire immagini chiare e complete. Ecco allora che finire degli anni ’50 Pribram si imbatté in una serie di studi che indirizzarono verso nuove strade ed ipotesi le sue ricerche. In particolar modo fu colpito da alcuni articoli circa l’olografia ottica, una tecnologia allora emergente, e dalla particolare metafora sul funzionamento del cervello che essa offriva. L’ologramma laser fu scoperto e messo a punto dall’ingegnere Dennis Gabor, il quale ricercava un modo per poter ottenere degli ingrandimenti dell’atomo. Questa scoperta gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1948. Il principio su cui si basa è tanto semplice quanto straordinario, e descrive essenzialmente un fenomeno di interferenza, ovvero quel fenomeno che si genera quando le onde si sovrappongono le une con le altre. Come si può vedere nell’immagine, l’olografia ottica produce una particolare pellicola che, al contrario di qualsiasi pellicola bidimensionale impressionata (come quella fotografica appunto), permetterà di ottenere l’immagine della mela tridimensionale – esaminabile sotto qualsiasi angolazione e da qualsiasi prospettiva – esattamente come se stessimo guardando (secondo l’esempio qui proposto) la mela reale. Per farlo, basterà illuminare un suo qualsiasi punto (qualsiasi!) con un fascio di luce laser e… voilà! Potremo vivere il nostro Star Wars casalingo. Se ne deduce che ogni minuscola porzione della pellicola, e quindi dell’informazione codificata, contenga tutta l’immagine. L’analogia tra questo sistema e il cervello fu proposta da Pribram dopo aver conosciuto lo stesso Gabor, e discusso insieme a lui della questione in termini matematici. La sua teoria, in pratica, descriverebbe l’effettiva capacità del cervello di leggere le informazioni, le quali si presentano sotto forma di onde, per poi convertirle in schemi di interferenza e trasformarle, proprio come nell’olografia, in immagini virtuali tridimensionali. Questa tesi è esposta e sostenuta da vari calcoli ed esperimenti in Brain and Perception: Holonomy and Structure in Figural Processing, pubblicato nel 1991. La matematica utilizzata da Gabor per la descrizione dell’olografia ottica si basa su una serie di equazioni di calcolo note come trasformate di Fourier. Tali equazioni sono in grado di analizzare e descrivere qualsiasi schema come un insieme di oscillazioni regolari e periodiche, che differiscono tra loro solo nella frequenza, fase e ampiezza d’onda. Qualsiasi immagine ottica può così essere tradotta e convertita in uno schema matematico di figure di interferenza, proprio in accordo con il teorema di Fourier: esso infatti dimostra che ogni oscillazione periodica di un’onda può essere sempre considerata come la somma di oscillazioni armoniche le cui frequenze sono tutte multiple, secondo numeri interi, della frequenza del moto periodico considerato. Proprio come mostra l’olografia, ogni cosa che vediamo può a ben vedere essere descritta come particolari configurazioni ondulatorie, il tutto supportato e confermato da una base matematica. Ma non solo: un’altra caratteristica delle equazioni di Fourier è che permettono di utilizzarne le componenti che rappresentano le interazioni delle onde e usarle per ricostruire qualsiasi immagine. Inoltre non bisogna dimenticare un altro interessante aspetto della questione: l’olografia rappresenta il trasferimento nel “dominio dello spettro” di qualcosa che noi percepiamo nel tempo e nello spazio; in altre parole, l’immagine virtuale è uno schema d’interferenza d’onda di qualcosa che viene in questo modo privato della sua dimensione spazio-temporale: a venire rappresentata sarà solo la sua natura ondulatoria, misurata quindi come forma di energia. Il modello del cervello mutuato da Pribram grazie all’analogia con l’olografia è quindi essenzialmente una descrizione matematica dei processi e delle interazioni neuronali. La matematica che rende tutto questo possibile è la stessa di quella presa in considerazione da Gabor e di quella che prima di lui Hillman e Heisenberg adottarono per la descrizione degli eventi quantistici: fondamentalmente quindi, la matematica che descrive i processi cerebrali è la stessa di quella che descrive lo strano mondo delle particelle subatomiche. Per spiegare il suo modello teorico, che come abbiamo descritto nella prima parte è essenzialmente un modello matematico, Pribram propose un’analogia tra il cervello e il pianoforte. Una metafora che in effetti rende tutto molto più chiaro, e che più facilmente fa intuire le straordinarie conseguenze della sua analisi. Partiamo da una semplice domanda: se tutto ciò che abbiamo detto precedentemente fosse reale, come avverrebbe il fenomeno percettivo? Semplice (si fa per dire…): proprio come accade suonando un pianoforte, quando osserviamo qualcosa nel mondo alcune porzioni del nostro cervello risuonerebbero su determinate frequenze specifiche; in un certo senso la percezione accadrebbe premendo solo determinati tasti, che a loro volta andrebbero a stimolare le corde corrispondenti. Quelle prodotte, dunque, saranno informazioni sotto forma di onda (le note musicali) con determinate frequenze, lunghezza e fase (proprio come accade in quanto descritto dal teorema di Fourier) che risuoneranno nei neuroni del nostro cervello. I neuroni, poi, manderanno l’informazione relativa a queste frequenze ad un altro insieme di neuroni che trasformerà (sempre secondo il principio della trasformata di Fourier) tali risonanze descrivendo proprio l’immagine ottica così ottenuta al piano focale oculare. Un terzo insieme di neuroni, allora, costruirà alla fine l’immagine virtuale dell’oggetto, che apparirà a noi come un oggetto fuori nello spazio. Questa operazione rifletterebbe, a ben vedere, una creazione in un mondo senza tempo e senza spazio di schemi di interferenza, un atto creativo in cui viene generato un oggetto in una dimensione spazio-temporale sulla superficie delle nostre retine. In un’intervista del 1988 (si vedano le note a fondo pagina), Pribram disse di aver convogliato il modello qui delineato in una teoria, che chiamò Holonomic Brain Theory (teoria del cervello olonomico) e che scelse il termine “olonomico” per distinguerlo da quello “olografico” e sottolinearne così la connotazione olistica generale (holos deriva dal greco “intero”, “tutto”; nomos da “norma”, “legge”). L’olografia offrì dunque a Pribram la rivoluzionaria intuizione che esistesse una relazione tra il dominio delle frequenze e quello delle immagini-oggetti di cui facciamo esperienza. Le conseguenze di questo modello ricordano molto quanto emerso dai paradossi della meccanica quantistica: allo stesso modo infatti l’osservatore non può esistere indipendentemente dall’oggetto osservato, e allo stesso modo sembra totalmente inefficace permanere in una prospettiva dualistica che considera i due sistemi come separati. Il modello olonomico del cervello renderebbe anche conto della vastità della memoria umana in quanto spiegherebbe come riusciamo ad immagazzinare così tante informazioni in uno spazio così ristretto. Come abbiamo visto nella prima parte di questo articolo, gli ologrammi possiedono infatti una straordinaria capacità di contenere dati semplicemente cambiando l’angolazione con cui due raggi laser colpiscono la lastra fotografica, rendendo così possibile accumulare miliardi di informazioni in un solo centimetro cubico di spazio. Ne conseguirebbe che un cervello che funziona secondo i principi dell’olografia non andrebbe a scartabellare nei meandri di un archivio mestico, perché ogni frammento di informazione sarebbe sempre istantaneamente correlato a tutti gli altri. Il cervello userebbe quindi gli stessi principi dell’ologramma per convertire, codificare e decodificare frequenze (luminose, sonore etc.) ricevute attraverso i sensi. Tutto ciò farebbe perno sul fatto che il cervello non immagazzina informazioni in precise localizzazioni (come ha mostrato Lashley a proposito degli engrammi) ma le distribuirebbe su vaste aree nello spostamento concettuale da strutture a frequenze. Diversi esperimenti della coppia di neurofisiologi De Valois dell’Università della California dimostrarono come, in effetti, numerose cellule del sistema visivo siano sintonizzate su determinate frequenze, e come queste stesse cellule nei gatti e nelle scimmie non rispondano alle stesse configurazioni ma a quelle di interferenza delle loro onde componenti. La stessa cosa fu mostrata da Fergus Campbell a Cambridge, il quale concluse che il sistema visivo debba essere sintonizzato su frequenze specifiche, in termini di trasformate di Fourier. Un’ulteriore intuizione di Pribram riguarda la capacità del cervello di analizzare il movimento in termini di frequenze ondulatorie e di trasmettere queste configurazioni così ottenute al resto del corpo. Egli venne a conoscenza, infatti, di alcuni studi del sovietico Bernstein, il quale analizzò in termini matematici i movimenti compiuti da alcuni attori vestiti con tute nere sulle quali erano state attaccate alcune strisce e punti bianchi per contraddistinguerne gli arti. Gli attori erano poi stati filmati mentre camminavano, correvano o danzavano su uno sfondo anch’esso nero, dopo di che i movimenti tracciati dai segni bianchi, che descrivevano sommandosi una configurazione continua ondulatoria, fu analizzata matematicamente. Ebbene, il risultato confermerebbe le ipotesi precedenti: i movimenti analizzati potevano essere infatti formalmente rappresentati in termini di equazioni di Fourier, confermando di fatto la possibilità che il cervello comunichi con il resto del corpo con il linguaggio delle onde e delle loro configurazioni. Al fine di dare supporto all’idea che la trasmissione avvenisse, a livello della corteccia motoria, nello stesso modo come nel sistema visivo – e quindi in modo compatibile con la teoria del cervello olonomico – Pribram mise a punto l’ennesimo esperimento con i gatti (questa volta senza sforbiciate ai loro cervelli…). Egli registrò le frequenze della corteccia motoria del gatto mentre gli veniva fatta muovere passivamente la zampa destra anteriore in su e in giù, ottenendo così un movimento sinusoidale. Come osservato nella corteccia visiva, anche in questo caso le cellule del nucleo caudato e della corteccia sensomotoria della bestiola rispondevano selettivamente solo a un determinato range di frequenze di movimento. A questo punto la domanda che si poneva era come potesse avvenire questa trasmissione di segnali in termini di frequenze ondulatorie, in che modo fosse possibile tale decodificazione e trasformazione di tutti i punti che vengono rivestiti dalla perturbazione ondulatoria (chiamata fronte d’onda). Pribram ipotizzò allora che la propagazione non avvenisse all’interno dei neuroni, ma attraverso le glia che li circonda, per mezzo della quale, quindi, verrebbero modulate e analizzate determinate frequenze. È proprio a questo punto che avvenne l’incontro tra la neurofisiologia, le neuroscienze e la fisica quantistica. Proprio quando Pribram stava sviluppando l’idea che le proprietà ondulatorie e particellari osservate nella meccanica quantistica avrebbero potuto, in qualche modo, essere utili al fine di comprendere le natura dei microprocessi neurali, il fisico David Bohm venne a conoscenza del suo lavoro e lo invitò ad una conferenza a Londra. In quel momento Bohm stava sviluppando una formulazione alternativa in fisica quantistica e nella teoria del campo che descrivesse il dualismo onda-particella e il fenomeno del non-localismo. Come si dice, un incontro che spunta a fagiolo. La teoria di David Bohm – una di quelle teorie che mi fanno fare fatica a prendere sonno – implica l’esistenza di un ordine generale che contiene il tutto, quella che battezzò totalità ininterrotta (o totalità senza discontinuità). Secondo Bohm, la convalida offerta da Aspect circa l’esistenza di legami di tipo non-locale tra le particelle subatomiche, forniva la prova che non esista una realtà in cui le sue componenti siano separate spazialmente. Bohm credeva infatti che ad un livello profondo della realtà, le particelle che comunicano istantaneamente tra loro non siano entità individuali, ma estensioni di uno stesso organismo fondamentale. A questo livello, in cui il tutto è implicato in ogni sua parte, l’universo stesso non sarebbe altro che una sua proiezione, e per questo la più immediata analogia con questo ordine non può che essere il nostro ologramma. Nel grosso calderone del tutto, il tempo e lo spazio non sarebbero più dei principi fondamentali (in accordo con le teorie di Einstein), ma una ulteriore proiezione di un sistema più profondo a livello del quale il presente, il futuro e il passato coesisterebbero in un’unica dimensione. Visto che l’ologramma è un sistema statico, Bohm preferì utilizzare per descrivere l’ordine implicato il termine olomovimento, certamente più adatto a descriverne la sua natura dinamica, eternamente in attività. All’interno della realtà oggettiva dell’universo fisico, in un livello non-locale esisterebbe un campo in cui ogni sua parte contiene tutte le altre, un enorme magazzino di informazione compenetrate. Ecco perché l’accostamento del modello cerebrale olografico di Pribram con la teoria di Bohm, offre una concezione tanto affascinante (quanto poco intuitiva) della realtà. Grazie al loro incontro, i due studiosi insieme a Geoffrey Chew ed Henry Stapp, iniziarono a lavorare in gruppo per formulare una descrizione matematica che riflettesse tali fenomeni sia nella fisica subatomica che nei microprocessi cerebrali. Allo stesso tempo, dall’altra parte del mondo, il fisico giapponese Kunio Yasue si stava interessando al campo di ricerche sulla teoria probabilistica nella meccanica quantistica riprendendo gli studi di Bohm sull’argomento. Fu proprio a questo punto che la psicologa Jibu chiese a Yasue cosa ne pensasse dell’idea di Pribram sull’olografia neuronale. Colpito da questi studi, subito si mise al lavoro per esprimere matematicamente tali processi cerebrali, mostrando alla fine come le reti di comunicazione dendritiche operino attraverso campi vibrazionali che si comportano in accordo con le proprietà osservate nel mondo quantistico. Non è fantastico? la bella notizia è che – forse per la prima volta – campi di studio tanto diversi e affascinanti si siano incontrati, sul piano teorico, descrivendo la nostra “macchina umana” in termini affatto ordinari e in accordo con le più straordinarie conseguenze messe in luce dallo studio della meccanica quantistica. La brutta notizia è che anche questa notte faticherò ad addormentarmi. Certo è che tra pillola rossa e pillola azzurra, pillola rossa tutta la vita… Fonte: www.altrogiornale.org

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