Si arriva verso le undici, in lungo Stura Lazio. Si entra davanti a un discount, lungo una larga rimonta di terra bagnata e piastrellata di vecchi cd e suole di scarpa. I volontari di Terra del Fuoco e Legambiente, coperti da pettorine gialle, hanno carriole e guanti da lavoro verdi. Sulla destra c’è un cumulo di rifiuti che cresce con lo svuotarsi delle carriole. Sulla sinistra un’auto arrugginita e scheletrita galleggia su ammassi informi di materiali d’ogni genere: stoffe ammuffite, pani di polistirolo, lattine, bottiglie e sacchetti di pet, passeggini deformati, boiler, divani sfondati, televisori. In mezzo, un sentiero occupato dal viavai dei volontari, dove ci si incammina.
Nella giornata di “Puliamo il mondo” non ci sono volontari e ore di lavoro che possano bastare a chiudere in un solo giorno l’enorme lavoro necessario a bonificare un’area così devastata. Tra le baracche abitate da un mare di bambini e dai loro genitori e fratelli maggiori ci sono ancora, dopo una settimana di lavoro continuo di circa 300 volontari e di buona parte degli adulti che vivono nel campo (circa 500 persone in totale), montagne di rifiuti, a volte abbandonati dietro l’uscio dei ricoveri improvvisati, a volte nascosti sotto letti di canne, in parte rovesciati verso il fiume, come un ruscello agitato e torbido che cola da un lago di marciume da cui sorgono, anch’esse fatte di rifiuti, le baracche dei disperati che vivono in una sorta di primordialità parassita, come batteri affamati che attaccano il corpo di un’Europa ricca ma dal corpo vecchio e malato.
Ci sono i volontari che rompono con la forza delle mani i mucchi compatti, separando grumi informi per posarli nelle carriole spinte da padri e figli con mascherine e tute di carta su per le erte appiccicose. Ci sono i giornalisti che si fermano con i taccuini e le telecamere lungo un limite invisibile ma ben disegnato dai volontari e i fotografi che sgusciano indifferenti tuffandosi nei flussi di persone indaffarate. Ci sono un sindaco e un amministratore che osservano e ascoltano, e parlano di fermezza e solidarietà, due estremi di un continuum che deve trovare il suo punto di leva. Ci sono i rom e i meno rom che chiedono di parlare con il sindaco per sapere cosa succederà di loro, e i volontari che li rassicurano dicendo che il percorso è già avviato: li aspetta una sistemazione più dignitosa, nei tempi che si renderanno necessari. Ci sono nodi di linee contorte nei quali non si distinguono i cavi sventrati del rame dal canneto riverso che li copre. C’è una favela lunga 800 metri che si snoda lungo la riva del torrente che sembra un villaggio del Far West. Ci sono le donne che friggono le patate sul fuoco di legna, come squaw trecciolute, e uomini che ci seguono per essere sicuri che ce ne andremo. C’è una chiesa evangelica fatta di lamiera e tubi d’acciaio, ben più linda e ordinata dei tuguri circostanti, protetta da una robusta cancellata. Ci sono migliaia di topi invisibili, spaventati e fuggiti da tanta frenesia di nitore. Ci sono, lungo il limitare dell’inferno, gazebo ordinati con tavoli ordinati e panche ordinate che accolgono piccoli scout canterini che salutano tutti con grandi sorrisi. Ci sono signorine adulte che cantano filastrocche per bambini a bambini con gli occhi da adulti. C’è la sensazione di trovarci davanti a una montagna da spostare con i cucchiaini. C’è un tenace flusso di legalità che cerca di trascinare fuori dal quella sponda maledetta le vite che vorranno salvarsi, ma che rischia di perdersi nel mare nostrum del vuoto di senso civico.
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