Torino ricorda il procuratore capo Bruno Caccia

Creato il 27 giugno 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Nella giornata di ieri mercoledì 26 giugno, la città di Torino ha ricordato con incontri e celebrazioni il procuratore Bruno Caccia,

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assassinato dalla ‘ndrangheta esattamente trent’anni fa. Era una normale sera d’estate e Caccia stava portando a spasso il cane in via Sommacampagna, a due passi dal Monte dei Cappuccini, dopo una giornata di riposo fuori città. Lo affianca una macchina composta da tre sicari, aprono il fuoco e sparano, quattordici colpi di cui tre alla nuca, per essere sicuri di non fallire il loro obiettivo.

Il verdetto di morte su Bruno Caccia fu emesso dalla ‘ndrangheta nella persona di Domenico “Mimmo” Belfiore, che all’epoca tirava le fila della malavita locale. Belfiore e compagni avevano da sempre intessuto una fitta rete di contatti nel mondo della giustizia e della magistratura, basti pensare al fatto che il bar del Palazzo di Giustizia era gestito dalla moglie di Franco Gonella, tesoriere della cosca. In alcuni casi si può azzardare che mafia e magistratura non solo non si pestassero i piedi, ma andassero addirittura d’accordo: di giorno il lavoro in tribunale, di sera il poker nella sontuosa villa in collina di Belfiore, per molti la prassi era questa. Bruno Caccia invece era un integerrimo, completamente dedito a quanto la sua professione comportava. Dotato di grande intuito, fu il primo a subodorare quella che dieci anni dopo sarebbe stata Tangentopoli, fu il primo a intuire quanto grave fosse il sistema delle ‘ndrine a Torino. Caccia era diventato estremamente pericoloso e con lui, per ammissione dello stesso Belfiore, era impossibile trattare, arrivare a patti. Non solo il procuratore capo era incorruttibile, ma addirittura inavvicinabile; fu più volte definito da chi poi ne decise la morte come un professionista accanito, fin troppo preciso, puntiglioso. Aggettivi che per un magistrato sono complimenti, ma che nel linguaggio della mafia rappresentano tutt’altro. Probabilmente Bruno Caccia era vicino a qualcosa di grosso, un vaso di Pandora che se scoperchiato forse avrebbe messo in crisi l’intero sistema mafioso cittadino.

L’iter processuale ha portato la giustizia all’arresto di Belfiore in quanto mandante e ideatore dell’omicidio Caccia. Belfiore venne incastrato dalle registrazioni di Francesco “Ciccio” Miano, leader della mafia catanese nella città sabauda nonché collaboratore dei Servizi segreti una volta incarcerato. Negli inequivocabili colloqui privati con Miano, Belfiore si prendeva il merito di aver ponderato e progettato nei minimi particolari l’agguato a Caccia rivendicando per sé la gratitudine dei catanesi. Belfiore, come ogni ‘ndranghetista che si rispetti, conservò sempre un fondo di sospetto e proprio per questo non scese mai nei particolari: ad oggi non conosciamo ancora i nomi dei tre sicari di via Sommacampagna.

La storia è ancora avvolta nel mistero e nell’incertezza; giustizia è fatta, ma fino a un certo punto. Tutti, a partire dai figli di Caccia, sono convinti che ci sia ancora molto da scoprire e chiedono la riapertura del caso. Soltanto pochi giorni fa si sono aggiunte domande alle domande: La Stampa racconta di un’intercettazione datata 2009 in cui il Pm Olindo Canali riferisce all’interlocutore, un giornalista con cui sta lavorando ad un’inchiesta sulla mafia, una verità inquietante e mai emersa. Nell’abitazione del boss della cittadina siciliana di Barcellona Pozzo di Gotto, Rosario Cattafi, è stato ritrovato un volantino con su scritta la falsa rivendicazione delle BR per il delitto Caccia. Cattarafi è ritenuto essere il punto di contatto tra Cosa Nostra e i servizi deviati. Un insieme di fattori poco chiari ma soprattutto mai chiariti che rinvigorisce l’intima convinzione che, per la memoria di Bruno Caccia, c’è ancora molto lavoro da fare.

Articolo di Matteo Fontanone


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