… L’opprimente e fuligginoso grigio del cielo di Auschwitz; un grigio che non riesce a farci capire dove sia l’orizzonte; un grigio che si spezza solo sotto la luce della lampade appena fuori le baracche dei deportati; un grigio che ti senti entrare nella gola, che sembra non permetterti di respirare bene, che ti entra nello stomaco.
Perché sai che il cielo è grigio per il fumo delle ciminiere dei forni crematori.
Perché sai che quella polvere bianca che cade dal cielo non è neve, sono ceneri… e non sono ancora le tue per una semplice questione di ordine di tempo…
È un doloroso pugno allo stomaco quello che ci dà la graphic novel Auschwitz. Stampata nel formato originale 23×31 in bicromia, è l’opera più completa e conosciuta del transalpino Pascal Croci. La genesi di questo libro, narrataci dallo stesso autore, ci parla di minuziose interviste raccolte da lui e da altri fra i sopravvissuti (pochi, invero) a quello che fu l’inferno di Auschwitz. A chi si chiede se valga ancora la pena ricordare, 60 anni dopo, cosa sia stato l’Olocausto per gli ebrei ma anche per il resto del mondo cosiddetto “civile” (ah, civile – nda) sappiamo di non dovere alcuna risposta. Valga, per chi ha ancora qualche dubbio, la replica data da Maurice Minkowski (uno dei sopravvissuti intervistati dall’autore) alla domanda “Quanto tempo ha tenuto per se questo segreto?“:
Cinquantadue anni! L’ho già detto, nessuno era interessato a tutto ciò…
Genesi, preparazione, motivazioni… e qualche precedente
Croci convoglia la sua attenzione, il suo tempo (quasi cinque anni di preparazione) e la sua arte, sullo sterminio degli ebrei effettuato dai nazisti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. La lista di riferimento dell’autore per le precedenti realizzazioni di fumetti e film sullo stesso tema non è lunghissima. Lo stesso infatti cita la miniserie Tv Olocausto (trasmessa anche in Italia) così come la Graphic Novel Maus, pubblicata la prima volta in volume nel 1986, in assoluto il libro a fumetti più letto e venduto fra i non appassionati del “genere”, opera del premio Pulitzer Art Spiegelman, americano di origini polacche. Cita anche due film esattamente all’opposto fra loro; parliamo della pluripremiata opera in bianco e nero Schindler’s List dell’entertainer Spielberg, qui alle prese con un film nel quale, piuttosto che cercare templi maledetti o incontri ravvicinati di un qualche tipo, mette la sua arte (e permettetemi di sottolinearlo, ma in Schindler’s List parliamo davvero di arte) al servizio di un racconto duro e dettagliato della vita nei campi di concentramento (anche se sarebbe più esatto dire campi di sterminio) nazisti. L’altro film al quale Croci si riferisce è l’altrettanto premiato dal pubblico La vita è bella del nostro Benigni, oggetto di giudizi controversi da parte della critica cinematografica, e non sempre ben capito o apprezzato dalle comunità ebraiche. Nella mia lista di piccole e grandi opere degne di nota, però, permettetemi di aggiungere, a titolo strettamente personale, il delicato La finestra di fronte che, seppure tenendolo come sfondo, tocca l’argomento Olocausto con grande sensibilità evidenziando come sia falsa l’idea che esso abbia solo sfiorato l’Italia.
Croci, come racconta nella postfazione del volume, in occasione di un incontro con il pubblico ha avuto l’occasione di ascoltare una donna sopravvissuta a un campo di sterminio; da lì in poi ha iniziato a raccogliere i racconti di persone che hanno passato gli ultimi cinquant’anni della propria vita rivedendo ogni giorno il film dell’orrore al quale assistettero ad Auschwitz. L’autore, che non è ebreo, trova in queste persone inizialmente un muro difficile da superare, quello dell’omertà e dell’ostilità causato dalle inaudite violenze subite (perdita di intere famiglie, umiliazioni fisiche e morali, percosse, fame, semplice “terrore” causato dal potere di vita e di morte che i nazisti avevano su di loro) e dall’essere scampati in numero davvero esiguo a una morte che ha preso con sé spesso tutti i familiari, e in totale almeno cinque milioni di ebrei. Cinque milioni di motivi per i quali non ne avremo mai abbastanza di ricordare, e ricordare ancora quanto accaduto, potremmo dire in un attacco di demagogia.
Croci vive la raccolta di materiale per il suo volume con crescente interesse, cerca e riesce a conquistarsi la fiducia delle associazioni dei sopravvissuti, raccoglie vicende particolari e racconti che mette da parte per poterli narrare poi in un corpus unico. Durante la preparazione del libro, l’autore alla domanda, posta da alcuni amici, “Come fai a dormire ora che sei immerso in queste vicende angoscianti?“, risponde di non aver alcun problema a dormire, visto che quell’epoca di orrori è stata per fortuna superata. Quello che però Croci sente necessario è raccontarla, ancora una volta.
A suo tempo Spiegelman aveva realizzato con Maus una storia autobiografica basata sui racconti di suo padre, partendo dalle prime persecuzioni fino alla fine della seconda guerra mondiale. Il “filone” delle graphic novel di questo tipo aveva poi raccolto, per citarne almeno due, i contributi di Joe Kubert con Fax from Sarajevo e di Joe Sacco con Palestina. In tutti questi casi (e anche in questo Auschwitz) le storie raccontate sono in gran parte vere, e i cambiamenti effettuati sono solo ai fini di una migliore narrazione fumettistica. Sono esempi di come gli autori abbiano sentito il bisogno di affrontare il racconto di qualcosa di dolorosamente reale, e sono, allo stesso tempo, un contributo alla costruzione di una memoria che dovrebbe servire, all’umanità, per sbagliare di meno. Kubert ci narra del suo amico Rustemagić, Sacco (che è un giornalista) racconta le sue dirette esperienze, Spiegelman la storia della sua famiglia e Croci uno spaccato di vita in un lager raccolto dalle vive voci di chi l’ha vissuto.
Auschwitz come testimonianza disegnata; l’Orrore così come è stato
Rispetto a Maus il volume di Croci si differenzia per più cose. Auschwitz copre un arco di tempo molto più breve, e inoltre è ambientato sempre nello stesso luogo; in Maus, invece, l’autore ha avuto il tempo e il modo per raccontare non solo la parte finale dell’eccidio degli ebrei, ma anche il crescendo dell’orrore dalle prime leggi razziali fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, inframezzando il tutto con scene della vita sua e di suo padre al giorno d’oggi. Croci punta il dito dritto sulle atrocità dei lager.
Spiegelman, con una trovata che in non piccola parte causa il successo del volume, rappresenta gli ebrei con le fattezze di topi e i tedeschi con quelle di gatti; utilizza una “line art” piatta e una struttura di pagina con una griglia fitta per permettere una narrazione lunghissima (si parla praticamente in ogni vignetta). Il transalpino, invece, mette spesso anche solo tre o quattro vignette in una tavola di dimensioni molto più grandi, e pennella i volti scavati dei deportati su uno sfondo grigio che ci opprime, e rende in maniera drammatica, con uno stile realistico, le condizioni in cui versavano i prigionieri; i loro occhi sono segnati da occhiaie profonde e sembrano enormi nei volti scarni. Volti stremati dalla fame e dalla paura di chi non ha neanche più la forza di gridare aiuto, vinto dalla certezza di una morte in arrivo.
Spiegelman narra la vicenda attraverso il racconto del padre e lo commenta con la sua voce, non lesinando domande, paragoni; realizza un commento alla sua stessa opera all’interno della stessa (un po’ come le tracce audio dei dvd con le spiegazioni del regista) ed esprime chiaramente le sue opinioni. Croci, come detto, non è ebreo e non racconta la sua storia; non è la sua Shoah quella che lo ha ispirato e che vuole dipingerci, né quella della sua gente. Non basta la sua neutralità alla vicenda per addolcire il racconto, non basta che ci sia un nazista meno trucido o appena un po’ più umano per mitigare l’orrore dell’apertura del forno crematorio dopo l’emissione del gas Zyklon (vedi la tavola 41). Croci vuole provare (e lo scrive apertamente) a convincerci che non esiste solo il bianco e nero, ma che ci sono sfumature in tutte le cose e che lui non sta emettendo giudizi e sentenze.
Eppure, nonostante questo intento, noi non troviamo pietà da parte dei nazisti in nessuna tavola dell’albo e non ci sarà quindi pietà per chi dovrà, dopo anni, giudicare quello che è accaduto.
Abbiamo fra le mani un’opera che dovremmo definire “fiction”, un’opera frutto dell’ingegno di un autore, di un uomo che la ha scritta, realizzata, inventata. Abbiamo, sotto la pelle, la voglia di credere che sia un’opera di fantasia, che la disperazione dipinta sui volti degli ebrei (rapiti dalle loro case, spogliati dei loro averi, dei loro abiti, di ogni diritto sociale) non sia reale. Che il terribile senso di rassegnazione che vediamo nelle file che i deportati fanno per l’appello, per un tozzo di pane, per sapere se saranno scelti per essere giustiziati o meno, non sia vero.
Nelle poche tavole del volume Croci dipinge (solo un accenno, perché si capisce che parecchie vicende, anche più truci, sono state omesse) gli orrori del campo di sterminio di Auschwitz. Lo stesso campo, non a caso, dove il padre “Maus” di Spiegelman trascorse la sua prigionia, fra mille espedienti per salvarsi dalla morte. La storia e il susseguirsi degli eventi è tristemente nota: all’arrivo i deportati venivano divisi in uomini e donne, all’interno dei campi veniva effettuata una seconda selezione in base alla nazionalita’, e veniva applicata una generica legge di selezione naturale che destinava alla morte immediata chi era troppo debole o vecchio. Spesso i bambini venivano utilizzati come cavie per esperimenti realizzati da personaggi tristemente noti come il Dott. Mengele.
La storia
Il protagonista dell’abo ci racconta la sua esperienza ad Auschwitz in flashback; all’inizio del volume, infatti, si trova ai giorni nostri (1993) nella Bosnia dilaniata dalla guerra, e ci spiega come abbia poco senso essere sopravvissuto per miracolo alla follia di Auschwitz per poi trovarsi in pericolo di vita cinquanta anni dopo nella ex-Jugoslavia. Dopo la deportazione, Kazic e la moglie (e la figlia Ann) vengono ad Auschwitz e quindi, attraverso il racconto di Croci, entriamo a questo punto nel campo di sterminio e iniziamo a prendere confidenza con l’orrore e la disperazione.
I contrasti di colore quasi svaniscono; il grigio dei volti e dei vestiti viene circondato da una nebbia avvolgente. Non c’è orizzonte e non riusciamo a vedere a più di dieci metri; poche tavole ci serviranno a capire che non è nebbia né neve il fenomeno atmosferico che rende tutto così angosciante, ma è il fumo e le ceneri dei forni crematori. Kazic si scontra con le impunite mattanze di militari ai quali è stato detto di non preoccuparsi della vita dei loro prigionieri; visto che sono tutti destinati a morire, basta un’occhiata storta ad autorizzarli ad ucciderli sul posto. Si incontrano persone che non capiscono ancora che non ci sarà nessun posto dove saranno portati a vivere, lontano da casa, nelle “riserve” ebraiche di cui parlavano i nazisti; che nelle camere a gas non si entra per lavarsi o disinfettarsi; che gli effetti personali vengono lasciati all’entrata non perché saranno riconsegnati dopo. E si incontrano invece tante altre persone che hanno già capito tutto ma che non vogliono crederci e che, rinunciando a ragionare, sperano disperatamente di essere deportati in riserve, di lavarsi nelle camere a gas, di riavere i propri vestiti.
Kazic cerca di sopravvivere alle “esclusioni” e di passare tutte le selezioni fino a chiedere di essere incluso nelle liste dei “Sonderkommando”; erano, questi ultimi, gli ebrei destinati a ripulire le stanze dove avvenivano le mattanze dei prigionieri con il gas. Per Kazic era l’unico modo per rivedere la moglie e la figlia, ma anche un modo sicuro per morire; nessuno degli ebrei che sgombrava le stanze delle camere a gas dai cadaveri dei prigionieri, infatti, era destinato a sopravvivere per non rischiare che in seguito raccontasse cosa avesse visto.
Nella camera a gas Kazic, dopo la riapertura delle porte, scopre, sotto una montagna di cadaveri, la propria figlia ancora viva. Anche questo, ci racconta Croci, è un episodio realmente accaduto ad Auschwitz: una bambina sopravvisse davvero all’emissione di monossido di carbonio perché, sotto in cumulo di altri prigionieri, aveva il viso schiacciato sul pavimento; questo fatto causo’ grande incertezza fra i nazisti che per un po’ di tempo non seppero come affrontare la cosa. La storia nel fumetto invece va verso la conclusione narrandoci di come a Kazic non venga detto cosa ne è della figlia, lasciando a lui e a noi la certezza che sia stata assassinata subito dopo. Finito il lungo flashback nel campo di sterminio la moglie di Kazic gli confessa che la bambina in realtà era stata lasciata in vita e che morì due giorni dopo essere stata liberata alla fine della guerra.
Il volume si chiude con una pattuglia di militari che raggiungono (e qui siamo nel 1993 in Bosnia) l’anziano Kazic e la moglie Cessia; la penultima tavola ce li mostra a terra, giustiziati. Accusati di tradimento, processati, giudicati e uccisi da sei militari nella civilissima Europa di fine millennio. A cosa è servito sopravvivere ad Auschwitz? A cosa è servito raccontare Auschwitz? A cosa è servito raccontare il nazismo e dipingere gli errori e gli orrori dell’Olocausto?
La penultima tavola del fumetto di Pascal Croci ci dice, senza mezzi termini, che la risposta a queste tre domande è una sola ed è composta da due parole: a nulla. E questo è scritto, chiaramente, nell’ultima tavola.
Bello il fumetto, credeteci, di questo da noi sconosciuto illustratore francese. Bello per la voglia di raccontare in maniera diversa dagli altri, senza giudicare apertamente e in maniera preconcetta; cosa che, per quanto ci riguarda, comunque ci porta allo stesso risultato: condanna unanime. Bello perché realizzato con cura per i particolari anche se ciò non significa “disegno perfetto”. Per chi scrive, infatti, la cura sta anche nello sfumare nel grigio i piedi delle persone più lontane, tanto da farli apparire avvolti in questa nebbia perenne generata dalle alte ciminiere fumanti. Bello perché, e questo credo si sia capito, ci piace ricordare, anche se fa un po’ male.
A margine annotiamo, infine, un piccolo messaggio per noi tutti. L’autore è convinto che alcune ideologie, quelle religiose in primis, siano troppo diverse fra loro, e che il fatto che esse siano basate sul convincere gli altri che hanno torto non porterà mai ad una pacifica convivenza tra gli uomini. Eccolo, quindi, il singolare messaggio che Croci ci manda attraverso le parole di Ann, la figlia di Kazic: è necessario trovare il modo di “odiarci in pace”. Paradossalmente la soluzione a tanti problemi è, per l’autore, la possibilità di coltivare le proprie differenze (spesso inconciliabili) potendo nutrire per “l’altro” un odio “pacifico”. Paradossale si è detto. Eppure, pensandoci bene, cosa scegliereste voi fra una pace fra persone che si odiano e una guerra?
Abbiamo parlato di:
Auschwitz
Pascal Croci
Traduzione di Carlo Gazzelli
Ed. Il Melangolo, 2004
96 pagine, bicromia - 15,00 €
ISBN: 978-8870185218
Riferimenti:
Scheda dell’editore italiano:
www.ilmelangolo.com/schedausch.html
Scheda dell’editore originale:
www.lamartiniere.fr/editeurs/index.cfm?ed=13&isbn=2848100001
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