Perché abbiamo il Governo dei tecnici? Perché a capo del Governo, anziché esserci un Berlusconi o se proprio vi piace un Bersani o un Vendola, abbiamo un professore bocconiano che lavora(va?) per Goldman Sachs (una delle più grosse banche d’affari americane), per giunta non eletto da nessuno e piazzato lì, chissà da chi e chissà perché?
Beh, è difficile dirlo, ma è chiaro che alle banche d’affari internazionali (quelle che poi hanno caldeggiato e caldeggiano il Fiscal Compact) preme che l’Italia non esca dall’Euro e si prostri all’Europa, obbedendo a Berlino, a chi tira le fila delle finanza mondiale e tutela gli interessi della speculazione.
Ma andiamo con ordine. Vi propongo appresso alcuni passaggi tratti dall’ottimo articolo di Gabriele Tagi (troverete il link a fondo pagina), che spiega il perché tornare alla lira non sarebbe affatto drammatico, ma sarebbe un toccasana per la nostra economica, suggerendo di fatto il perché invece il Governo tecnico tiene duro e ci massacra di tasse pur di tenere l’Italia dentro il recinto delle vacche dell’euro.
Prima di tutto, l’autore, dopo averci snocciolato quintalate di osservazioni statistiche, essenziali comunque per giustificare il suo ragionamento, afferma:
L’introduzione dell’Euro non ha minimamente contribuito al risanamento dei conti pubblici italiani. Il rapporto debito pubblico totale/PIL è ancora ai massimi degli ultimi 30 anni. Il rapporto deficit (=disavanzo annuo)/Pil è invece in linea con la media degli ultimi trent’anni, ma è dal 2000 ad oggi sostanzialmente invariato…
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In altre parole, l’euro non ha sortito alcun effetto positivo sul nostro disavanzo e ancor meno sul nostro debito pubblico totale. Per dirla in parole povere, non è servito a nulla passare all’euro e anzi, ha persino peggiorato la situazione.
Ciò detto, prosegue:
La solidità finanziaria del nostro paese è invece in parte aumentata grazie alla politica di allungamento della vita residua media del debito pubblico italiano (fenomeno in Italia particolarmente significativo) che passa da 1,13 a 7 anni circa. In altri parole, l’Italia è stata particolarmente capace di trasformare il proprio debito da breve termine a medio-lungo termine, stabilizzando dunque in parte la situazione finanziaria.
Secondo l’autore dunque, il merito è delle politiche che hanno incentivato l’acquisto di titoli del debito pubblico a medio e lungo termine, che garantiscono una maggiore stabilità finanziaria, perché lo Stato non deve restituire i capitali nel breve periodo, ma in un periodo più lungo.
Però è il discorso sulla reintroduzione della lira il passo più interessante e il cuore dell’articolo. Tagi afferma:
Circa la svalutazione della lira, emerge chiaramente [che] divergenze [svalutatorie] superiori al 30% del cambio rispetto al suo potere di acquisto, sono statisticamente irrilevanti 1. Ciò significa che, se consideriamo il fatto che il cambio corrente della lira (990,4 Lire per Marco = cross di conversione con l’Euro) è sostanzialmente allineato con la parità del potere di acquisto, la probabilità che la svalutazione della Lira superi questa entità (ossia 30%) è statisticamente non significativa.
In parole povere, è improbabile che abbandonando l’euro e tornando alla lira, si crei una svalutazione tanto accentuata da danneggiare la nostra economia. Secondo l’autore — dati statistici alla mano — è probabile che se svalutazione è, essa oscillerebbe tra il 20% e il 30% del potere di acquisto della valuta italiana, con tutti i vantaggi che ne conseguono sulla nostra economia, sul nostro modello di sviluppo, sull’ottimismo e la capacità di esportare all’estero (la nostra economia infatti è basata essenzialmente sulle piccole e medie imprese con vocazione all’esportazione). Pertanto:
… chi parla di svalutazioni superiori (alcuni parlano del 60%) fa solo del terrorismo psicologico senza supporto statistico.
A conforto, cita un sondaggio di Merrill Lynch:
Occorre anche rilevare che in base al sondaggio effettuato da Merrill Lynch in dicembre 2011, su un vasto campione di investitori istituzionali internazionali, più del 50% degli investitori finali (fondi comuni di investimento, fondi pensione ecc.) ritengono possibile il dissolvimento dell’euro; questo significa che molti di loro hanno significativamente già alleggerito le posizioni in BTP e probabilmente sarebbero lieti di riacquistarle con uno sconto sul cambio del 20%.
Ed è qui che arriviamo al dunque. Tagi ci svela che non la pensano allo stesso modo le grandi banche d’affari:
Diversa è invece la posizione della banche d’affari, che vendono ricerca finanziaria sui mercati in palese conflitto di interesse. Queste temono di dover svalutare le loro posizioni di trading/investimento ed i loro asset in Italia, molto più di quanto non temano gli investitori istituzionali finali (fondi pensione e di investimento) che hanno vincoli contabili e di vigilanza (es. Basilea 2) molto meno pressanti. Le banche d’affari paventano dunque scenari catastrofici in caso di rottura dell’Euro, per convincere tutti gli investitori della necessità di restare aggrappati all’Euro, facendo così i loro propri interessi e cercando di evitare pesanti svalutazioni in bilancio e conseguenti necessità di ricapitalizzare e/o di cambiare management.
Capito? Praticamente le banche d’affari non hanno interesse che si ritorni alla vecchia moneta, perché con l’euro guadagnano parecchio sia per gli investimenti effettuati, sia perché chiaramente possono condizionare il mercato con la vendita di informazioni finanziarie e sia perché una politica monetaria europea è più facilmente controllabile delle politiche monetarie dei singoli paesi, influenzate più fortemente dai meccanismi democratici. Ciò detto, l’autore conclude:
Un’auspicabile svalutazione del 20-30% permetterebbe all’Italia di riprendere a crescere, di recuperare occupazione, di recuperare la sovranità della propria politica monetaria e fiscale, e allo stesso tempo, avrebbe un impatto sulla ricchezza interna dei cittadini addirittura positiva, dal momento che gli asset in valuta estera detenuti dai cittadini italiani sono molto superiori alle passività in valuta (gli italiani ricordano molto bene la lezione dei mutui in Ecu). Inoltre [...] il rischio di inflazione, in questo momento, è molto contenuto per ragioni di congiuntura internazionale.
Credo non ci sia null’altro da aggiungere. Se vi interessa leggere nel dettaglio l’articolo, ricco di dati statistici e ragionamenti (in particolare, appare interessante il raffronto tra la crisi attuale e quella argentina di qualche anno fa), non vi resta che recarvi alla fonte: Ioamolitalia.it.
- V. le statistiche nella fonte dell’articolo. ↩
di Martino © 2012 Il Jester