Il cinema di Ermanno Olmi, oggi più di ieri, è fuori da ogni canone commerciale. Per questo è più unico che raro, per questo va saputo cogliere nella sua ruvida, timida, sotterranea bellezza. Quello di Olmi è un cinema del silenzio, delle atmosfere, dell’attesa, quasi dell’immobilismo (Il mestiere delle armi del 2001 ne era la somma incarnazione). Torneranno i prati si inserisce perfettamente in questo modo di fare cinema che non urla, ma arriva al segno. Nell’anno del centenario della Prima Guerra mondiale, Torneranno i prati è un film necessario ma non celebrativo, bensì doloroso e sofferente, che ci invita a non dimenticare e a non ripetere gli errori del passato. “La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai” è la frase che chiude il film. Una saggezza quasi proverbiale, popolare, purtroppo vera più del vero.
Alla veneranda età di 83 anni, Olmi ha ancora il fiato per regalarci questo nuovo grande film, che con affetto dedica al papà che, come recita la scritta finale, quando era bambino gli raccontava di quando era soldato. Un film non facile, fatti di quadri e suggestioni, scandito da quella recitazione sospesa e a tratti alienata che caratterizza quantomeno tutto il cinema degli anni Duemila del maestro bergamasco.
1917, fronte Nord-Est. Olmi ci conduce nella lunga notte di una gelida trincea italiana al confine con l’Austria. Sepolti dalla neve e dal freddo, si consuma il sacrificio di un gruppo di uomini e giovani che la Storia ha chiamato a morire senza spiegargli il perché. Torneranno i prati è un film di denuncia, ma anche di perdono, di ricordo, ma anche di Memoria. Come già nel film su Giovanni dalle Bande Nere, anche qui Olmi ricorre agli sguardi in macchina per fissare negli occhi lo spettatore, come a voler scavare un’invisibile trincea tra lo schermo e la sala, come a volerci coinvolgere tutti, uno ad uno. La neve si scioglierà, sui corpi dei caduti nasceranno nuovi fiori, tornerà l’erba, quindi la vita. Ma prima c’è stata la morte, e questo non va dimenticato.
Quella morte che ammanta il film sin dall’inizio, da quei soldati che spalano la neve per tracciare il sentiero su cui far arrivare il rancio, gli stessi che come monatti nel finale scavano le fosse per seppellire i compagni caduti per le bombe, l’ipotermia, la febbre. E poi lupi, volpi, alberi secchi, fili spinati con campanelli che avvisano dell’arrivo del peggio. E quella canzuncella napoletana, Fenesta ca lucive, aria funebre che già Pasolini usò sia in Accattone sia ne I racconti di Canterbury. Prova ad allontanare questo spettro fatale la bellissima colonna sonora di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura (tromba e fisarmonica), dolce e malinconica composizione che sa essere ora inno ai caduti ora inno di vita, speranza, rinascita. Degna di nota anche l’epidermica e (chiardi)lunare fotografia di Fabio Olmi.
Vota il post (Vota tu per primo)