Com’era prevedibile, il rapporto del Congresso statunitense sull’uso della tortura dopo l’11 settembre ha riaperto vecchie ferite e l’infinito dibattito su libertà e sicurezza, su diritto e ragion di Stato.
Si tratta del più ampio e approfondito studio mai realizzato sul tema: costato più di 40 milioni di dollari, si basa sull’analisi di più di sei milioni di documenti interni dell’agenzia di spionaggio. Nel documento (consultabile qui) sono descritte numerose “tecniche di interrogatorio rafforzato” – così nei documenti interni – praticate dalla CIA ai danni di alcuni detenuti tra il 2002 e il 2008. Si trattava di procedure autorizzate non dal dipartimento di Giustizia, ma direttamente dall’ex presidente George W. Bush. Secondo quanto emerso, 119 persone sono state detenute in prigioni segrete dislocate in diversi Paesi del mondo. Di queste, almeno 26 sono state incarcerate ingiustamente e 39 sono state sottoposte a tecniche di interrogatorio violente come la privazione del sonno o il waterboarding.
La senatrice Dianne Feinstein, presidente della commissione incaricata di far luce sulle violenze, ha presentato il dossier in un testo di 528 pagine – sintesi di un più corposo studio che ne conta oltre seimila – organizzato in 20 punti chiave, dove spicca soprattutto il primo: “Le tecniche di interrogatorio usate dalla CIA non sono state efficaci per acquisire informazioni o per ottenere cooperazione da parte dei detenuti”.
Dopo la pubblicazione c’è chi ha reso onore agli Stati Uniti e alla loro democrazia, perché nessun altro Paese al mondo aveva mai reso pubblico un simile atto d’accusa contro se stesso. In realtà il rapporto è motivo di grande imbarazzo, non soltanto per l’applicazione generalizzata della tortura dopo gli attentati dell’11 settembre, ma per averla autorizzata nel più totale sprezzo del diritto americano e dei trattati internazionali firmati da Washington.
Come se ciò non bastasse, dalle pagine emerge con chiarezza come l’intelligence non abbia raccontato la verità al Congresso non solo rispetto ai metodi d’interrogatorio usati, ma anche (e forse soprattutto) rispetto ai risultati raggiunti. L’inganno sta nell’aver raccontato che le pratiche di interrogatorio “duro” servivano per prevenire altri attacchi all’America e quindi utili alla sicurezza dei cittadini statunitensi. Cosa che, dice il dossier, è falsa. Alcuni funzionari dell’Agenzia sollevarono la questione della legalità dei metodi di interrogatorio impiegati, ma i vertici dell’Agenzia replicarono che: “quel genere di dubbi non era utile”.
Viene fuori dunque una sconvolgente divergenza tutta interna alle istituzioni americane, secondo cui l’intelligence ha influenzato le decisioni della politica attraverso depistaggi e false informazioni. Questa divergenza perdura ancora oggi. Ad agosto scorso, la CIA ha trasmesso al Senato una versione della sintesi del rapporto della commissione pesantemente censurata in alcuni punti ritenuti invece fondamentali dalla senatrice Dianne Feinstein. Pochi giorni prima, la stessa Feinstein aveva accusato ancora la CIA di aver violato i computer di membri della commissione per eliminare alcuni documenti.
Su una cosa però i vertici degli Stati Uniti sembrano manifestare un’unità d’intenti: il desiderio di “voltare pagina”, come espresso dal presidente Barack Obama, il quale, commentando la pubblicazione del rapporto, ha aggiunto che “quando [noi americani] facciamo qualcosa di sbagliato, lo ammettiamo”. Ma voltare pagina è anche l’espressione più rassicurante dimenticare in fretta qualcosa di cui non vuole discutere in pubblico.
Un esempio? Lo scorso 5 dicembre, il segretario di stato John Kerry ha chiesto a Feinstein di non pubblicare il rapporto adesso, sostenendo che quello fosse “il momento sbagliato”. Viene da chiedersi allora quando sarebbe stato quello giusto, probabilmente mai. Perché Feinstein sapeva (come lo sapeva Kerry) che se il rapporto non fosse stato pubblicato adesso non sarebbe stato pubblicato mai più. Il mese prossimo entrerà in carica un nuovo Congresso a maggioranza repubblicana, che di sicuro avrebbe fatto di tutto affinché il dossier non vedesse mai la luce.
Fino a qualche mese fa il termine “tortura” era perfino bandito dai giornali statunitensi, ad esempio dal prestigioso New York Times, che fino allo scorso agosto – quando è stata diffusa una prima sintesi del rapporto – per riferirsi alla tortura usava giri di parole ed eufemismi, a riprova dell’”imbarazzo” suscitato dal tema nel dibattito pubblico d’oltreoceano.
La cosa peggiore è che all’interno della CIA, del congresso e del partito di Bush ci siano ancora persone che difendono l’indifendibile in nome dell’“efficacia”. A cominciare dal direttore della Cia, John Brennan, nominato da Barack Obama e perciò non coinvolto nella generalizzazione della tortura dopo l’11 settembre. Egli ha sì riconosciuto in un comunicato che l’Agenzia abbia commesso degli errori e che ci siano state “carenze” nel programma di detenzione, ma ha altresì citato venti casi di “successi” nella lotta al terrorismo ottenuti attraverso le torture, sostenendo che “le informazioni ottenute grazie al programma sono state fondamentali per capire Al Qaeda”.
Anche Dick Cheney, vicepresidente USA ai tempi di Bush, ha definito gli interrogatori “totalmente giustificati, fino a quando raggiungiamo i nostri obiettivi”, in barba ai casi di persone imprigionate, torturate e poi rivelatesi innocenti. Incalzato dall’intervistatore, egli ha sottolineato che non possiamo sapere se altri metodi avrebbero prodotto gli stessi risultati, evitando di condannare un fatto accertato e lasciando intendere che la tortura può essere giustificata se produce risultati. Il Cheney pensiero, tradotto, suona più o meno così: la tortura è giusta se produce risultati e sbagliata se non ne produce abbastanza. Ma il diritto non dice che la tortura è un crimine solo se non ci consegna informazioni utili: dice semplicemente che la tortura è un crimine e basta, sempre e in ogni circostanza.
Sempre secondo il diritto, per impedire un crimine prima o ristabilire l’ordine quando questo viene commesso dopo, bisognerebbe perseguire il criminale. Ebbene, questo principio che vale per un comune ladro di polli non si applicherà agli agenti segreti coinvolti nel programma di detenzione. Come annunciato dallo stesso Dipartimento di Giustizia USA, non saranno aperti procedimenti penali nei confronti di nessuno: nessun responsabile della CIA sarà perseguito.
A onor del vero, un agente segreto che sia stato condannato per la vicenda delle torture c’è. Si tratta di John Kiriakou, in carcere dal 2012 non per aver torturato qualcuno, bensì per aver lasciato trapelare il fatto che le torture fossero praticate. Paradigmatico della facilità con cui una democrazia, fondata sullo stato di diritto e la libertà di espressione, possa scoprirsi contagiata dalla barbarie tipica di quelle stesse dittature che, nell’era Bush, aveva così aspramente combattuto.
* Scritto per The Fielder