Totò nacque povero e “illegittimo” come si diceva allora. Un brutto inizio nella gretta Italia umbertina di fine ottocento. E ce ne volle di tempo prima che il ”Principe della Risata” si riscattasse dalla sua condizione, un riscatto che egli pretendeva totale, fino alla nobilitazione, quella vera, proclamata dai tribunali e dalle carte bollate.
Prima di quella, non stiamo qui a rivangare antiche questioni relative alla legittimità dei suoi titoli, erano già arrivati il successo e la ricchezza. Una ricchezza che egli non ostentava, come accade spesso ai parvenu, una ricchezza che si portava addosso con nonchalance e gli consentiva finalmente di dimostrare quanto grande fosse la sua generosità e la sua nobiltà d’animo.
Totò era generosissimo e per inclinazione non per posa, lo era anche coi colleghi, cosa rara nel suo ambiente e soprattutto con quelli in disgrazia, che sosteneva con le sue donazioni. Al contrario di un altro grande, Eduardo, che una volta, a un collega disoccupato che lo implorava di dargli lavoro con le parole: “Pur’io aggia campà”, rispose sarcasticamente: “E pecché!”
Franco Bompieri, il barbiere scrittore che con uno dei suoi libri “Presi per i capelli” ci ha regalato decine di deliziosi bozzetti di suoi clienti illustri, ce ne dà una testimonianza di prima mano.
All’età di diciassette anni, quand’era ancora ragazzo di bottega di quella che poi sarebbe diventata la sua barbieria, la mitica Barbieria Colla di Milano, fu mandato dal suo padrone alla suite 416 dell’Hotel Continental. Ad attenderlo c’era il Principe De Curtis. Solo un attimo di esitazione, di fronte ai suoi diciassette anni, lo salutò con un “Buongiorno” e si affidò alle sue cure con fiducia.
Terminato il lavoro, si specchiò e soddisfatto trasse dal portafogli un lenzuolo da diecimila. Il giovane Bompieri, con grande imbarazzo, il servizio in camera costava tremila lire, si scusò dicendogli: “Non ho il resto”. Totò lo squadrò e rispose: “Non occorre, il resto è per lei!”
Fedele al motto “Signori si nasce… ed io lo nacqui” Totò, dopo che una “generosissima” sentenza del Tribunale di Napoli aveva sentenziato la legittimità del suo titolo principesco, decise di dare il tocco finale al suo blasone aggiungendovi il Collare di Cavaliere d’Onore e Devozione dell’Ordine di Malta, il cui conferimento da parte di un’istituzione severissima nel valutare i quarti di nobiltà dei suoi membri, gli avrebbe aperto tutte le porte dell’aristocrazia di sangue.
Accompagnato dal suo avvocato, si recò dunque al Palazzo Magistrale di via Condotti, per conferire col Balì Taccone di Stizzano, il genealogista che avrebbe dovuto prendere in esame le sue credenziali.
L’arcigno dignitario, assai bene informato, sapeva che la ponderosa documentazione che Totò intendeva sottoporgli era estremamente lacunosa e per evitare interminabili e penose diatribe di natura genealogica tagliò corto, negandogli l’ammissione all’Ordine in base alla disposizione che impediva il conferimento del titolo di Cavaliere a chi esercitasse “Arti meccaniche, vili, abiette e interdette”.
Tra queste andava annoverata la “buffoneria” arte che accomunava gli attori di varietà ai buffoni, mimi e saltimbanchi che, parole di Taccone: “…Nell’antichità divertivano proprio gli antenati del Signor Principe De Curtis”.
Una volta congedato, Totò si avviò dignitosamente all’uscita e prima di varcare la soglia si voltò, squadrò il Balì e lo salutò con un imperiale, bizantino pernacchio.
Federico Bernardini
Fonte illustrazione: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Tot%C3%B2.jpg