Una morte violenta e precoce
regala l’immortalità, così come vuole la mitologia greca. È accaduto a
John Lennon e Jim Morrison, Jimi Hendrix e Kurt Cobain, Michael Jackson, Amy
Winehouse, Jeff Buckley. Per alcuni di loro il giudizio critico è stato tracciato
netto. Apro una parentesi per Amy Winehouse, di cui mi sfuggono
le celebrazioni: non ha fatto altro che riproporre Sarah Vaughan senza
neppure sforzarsi troppo in originalità. Ma si sa, chi muore ha sempre ragione,
per questo corro qui volentieri il rischio di prendermi il torto…
Jeff Buckley era un artista autentico, capace di esprimere inquietudini profonde con stile saldo – nel cuore conservo la meravigliosa versione di Hallelujah, da Leonard Cohen. Ha rappresentato con forza un periodo di oscillanti incertezze, ne ha raccontato il disagio, il dolore, la rabbia, con lo spessore di chi fa autobiografia fino allo stremo.
L'idealizzazione appare, nei confronti dei musicisti in particolare, un meccanismo inevitabile. I fan sono per l’appunto fanatici, sognatori incalliti. Resto però dell’idea che Jeff se ne sia andato troppo presto e per quel poco che ha realizzato (un solo album, Grace) sia da considerare quasi ingiudicabile.
Vero è, comunque, che non ci si può facilmente consolare dell'assenza di chi ha mostrato, anche solamente per un istante, talento puro. Per questo rimpiango la breve vita di Jeff quasi più che quella di John o Jim, La musica dei ‘90 ha perso, di colpo, una delle voci più sincere e struggenti. Forse l’unica che vale oggi la pena ricordare.
Touched by Grace - La mia musica con Jeff Buckley, di Gary Lucas, Arcana ed.