Alessandro Regazzoni (Stefano Accorsi), 40 anni, vedovo, vive a Strasburgo, dove insegna musica barocca, e, come secondo impiego, legge romanzi ad anziani malati in un reparto ospedaliero. Con lui vivono la figlia, Irina, 15 anni, e il fratello Luigi (Neri Marcoré), da tempo scappato dall’Italia berlusconiana. Dalla morte della moglie non ne ha più voluto sapere di donne. Ma figlia e fratello tramano alle sue spalle, inconsapevoli che sarà il destino a portare il vento di un nuovo amore…
Dopo il drammatico Ti amerò sempre, Philippe Claudel si cimenta con la commedia. E fa centro. Tous les soleils è una piccola grande opera che diverte e fa riflettere. Senza mai calcare la mano, anzi con una leggerezza da acrobata, Claudel tratta i temi della distanza generazionale tra padre e figlia, il susseguirsi di vita e morte, amore indotto e amore inaspettato. Dimostra di conoscere bene i concetti di tempi comici e tempi del sentimento, alternando gli uni agli altri con attenzione e brio, conducendoci senza preavviso alla risata come ad un serena introspezione.
Questa fluidità ricorre anche nel passaggio, nei dialoghi, dal francese all’italiano, e viceversa. Ed è proprio nel rapportarsi con queste due lingue che emerge la bravura dei due protagonisti, italianissimi: Stefano Accorsi e Neri Marcorè. Il primo dà prova di essere tranquillamente a suo agio nella commedia. E la lingua francese, così dolce e addolcente, sfronda ogni sua battuta da toni mucciniani (che però ritornano prepotenti ogni qual volta ci siano da pronunciare battute in italiano). Il secondo è il motore comico della pellicola. E non poteva essere diversamente. Occhio stralunato, capello scompigliato, vestaglia al vento, animo rivoluzionario. Marcorè apre bocca e sdraia sistematicamente la platea. Memorabile la scena in cui la funzionaria statale cerca di spiegargli che la Francia non può accettarlo come rifugiato politico perché l’Italia, nonostante lui la pensi diversamente, è ancora una democrazia. Al loro fianco il resto del cast funziona maledettamente bene. A partire dalla piccola Irina (Lisa Cipriani), genuina in ogni gesto, sorrisetto, ma anche sfogo da adulta verso un padre oppressivo e antiquato. C’è poi una dolente ma composta Clotilde Courau, bravissima attrice e non solo moglie di Emanuele Filiberto, e un’elegante, aggraziata, poetica Anouk Aimée.
Ma di italiano ci sono anche citazioni cinematografiche. Su tutte la scena iniziale con Accorsi che “sfreccia” zigzagando in strada con il suo esile Solex è un omaggio al Nanni Moretti di Caro diario perennemente in vespa per le vie di Roma.
Finale un po’ troppo sdolcinato, prevedibile, in parte deludente. Ma è un male che si perdona facilmente. Questo perché Philippe Claudel è riuscito a confezionare un’opera gradevolissima, familiare, per tutti, che per novanta minuti ci fa mettere da parte i nostri problemi quotidiani. A ritmo di tarantella, per di più.
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