Non ho mai avuto enormi pulsioni natalizie, però è un fatto che a Natale, ultimamente, la gente con me è in imbarazzo.
Come forse noto ai frequentatori degli albori di questo blog, mio padre ha fatto l’ultimo dei suoi molti check-in un 23 di dicembre.
Mentirei se dicessi che associo la cosa al Natale. Sono gli altri che associano me a questo evento e al Natale. Per carità, s’apprezza pure la delicatezza, ma questa cosa dopo un po’, non so come spiegarlo, pesa.
Mio padre manca a Natale, non per essere morto nei giorni del Natale, ma per il non esserci a Natale. C’è una differenza. E direi non sottile. Perchè l’assenza è qualcosa che si manifesta pure se uno fosse morto a ferragosto, piuttosto che a giugno, o a settembre.
Poi c’è un’altra questione. Alcuni pensano che quei giorni tornino alla memoria durante la ricorrenza. Quei giorni, permettetemi, si scolpiscono nella mente di chi resta, soprattutto se uno muore di malattia e non di un augurabile colpo secco. Cioè non è che li ricordi o li dimentichi a seconda del periodo dell’anno.
E a proposito di quei giorni. Se non piangi (o ti contieni) ti dicono che sei forte. Ecco, anche lì, non è che si è forti. E’ che le lacrime te le sei già piante tutte e con gli interessi in quella lenta agonia che accompagna la consapevolezza dell’inevitabile.
Perchè lo dico qua e non alla gente imbarazzata, vi chiederete ora. Perchè questo è il mio blog, e, occasionalmente, ci abbozzo i miei pensieri. Poi perchè, magari li sottovaluto, ma son convinta che, in percentuale, mi capirebbe il 10% e non ho voglia di passare per più strana di quel che sembro, che dopo un po’ anche far la figura della sghemba, rompe.
E gli auguri, ragazzi, ce li facciamo un po’ più in là, eh.