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Tra egida britannica e intesa iraniana. ‘Oman: strategia della riservatezza

Creato il 26 ottobre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Tra egida britannica e intesa iraniana. ‘Oman: strategia della riservatezza

La visita del Segretario di Stato britannico in ‘Oman, Philip Hammond, lo scorso 2 ottobre, è un’altra testimonianza della lunga storia di relazioni esclusive tra i due Paesi, relazioni che a fine ‘700 i rispettivi regnanti definirono “perpetue fino alla fine dei tempi (…) fino al giorno in cui sole e luna smetteranno di fare il proprio corso”. Nella residenza reale di Bait al-Baraka, conosciuta anche come Castello di Seeb, il responsabile della Difesa britannico è stato ricevuto dal Sultano Qabus bin Sa’id Al Sa’id alla presenza dell’ambasciatore Jamie Bowden, con delegazione al seguito. Tra i leader omaniti vi erano il ten. gen. Ahmed bin Harith bin Nasser al-Nabhani, capo del personale militare, il Capo di Stato Maggiore Mohammed bin Nasser bin Mohammed Rasbi, sottosegretario del ministero della Difesa, e Sayyid Badr bin Sa’ud al-Busa’idy, ministro della Difesa omanita il quale avrebbe poi incontrato Hammond presso la base militare di al-Falaj. Nella più ampia cornice dei cerimoniali, le espressioni di reciproca stima sono state riprese fedelmente dalla stampa locale dalla quale tuttavia non è trapelato altro che un breve e distaccato elenco di “tematiche di reciproco interesse”, quali questione nucleare iraniana, rispettive posizioni sulla Siria e azioni comuni di contrasto alla pirateria.

Similmente al resto dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo – qui di seguito GCC – (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Qatar), anche l’Oman è un Paese il cui principio di sovranità e il relativo esercizio è stato sottoposto all’egida britannica sin da tempi precedenti all’indipendenza, con una forte subordinazione in politica estera. Anzi, a differenza dei suoi vicini, l’Oman potrebbe essere maggiormente esposto alle ingerenze esterne in ragione dei suoi rapporti privilegiati con l’Iran. Lo scorso 6 ottobre il primo ministro David Cameron aveva designato il Sultanato “un partner del Regno Unito del calibro di India e Paesi del Commonwealth”. L’intesa tra ‘Oman e Regno Unito è spiazzante, sia in quanto a datazione (risale al 1646 il primo accordo commerciale tra le parti), sia per intensità ed estensione dei settori di cooperazione. Per citare solo alcuni dati utili a comprendere meglio il livello di uniformità tra i due Paesi, la Gran Bretagna è il primo partner commerciale dell’Oman e la sua è la comunità straniera in ‘Oman più grande, con 7mila espatriati. Oggi il volume di esportazioni dal Regno Unito verso l’Oman si aggira intorno ai 350milioni di sterline, e l’Oman esporta verso la Gran Bretagna 113milioni di sterline di produzione riguardante sicurezza, industria e alta tecnologia. Inoltre, circa il 50% degli studenti universitari omaniti ha studiato in un’università britannica, 2mila studenti scelgono di studiare in istituti superiori nel Regno Unito, dove anche la maggioranza dei docenti omaniti ha conseguito un titolo di studio. La vita culturale in ‘Oman inoltre è scandita dalle attività promosse dal British Council.

Ma è il campo militare quello in cui si registra l’alleanza perfetta tra i due Paesi: il terzo esercito più grande del GCC, l’Oman con 45mila uomini nelle forze armate affida totalmente alla Gran Bretagna la sua formazione; lo stesso Sultano Qabus ha studiato presso l’Accademia Militare di Standhsturd. La Gran Bretagna vanta in ‘Oman il più grande distaccamento di uomini con centinaia di soldati nell’organico dell’esercito omanita; la leadership dell’esercito di Sultan Qabus è stata britannica e sono costanti le esercitazioni congiunte nel Golfo dell’Oman, in quello Arabico, nel Golfo Persico o presso le numerose basi militari britanniche sul suolo omanita. Risale a due settimane fa una esercitazione militare britannica nel Golfo dell’Oman per testare i propri sottomarini nucleari, ed è stata ancor più sensazionale l’esercitazione militare congiunta condotta nello Stretto di Hormuz a metà settembre scorso e denominata “Squalo d’Arabia” con il coinvolgimento di 25 nazioni tra cui anche Arabia Saudita, Pakistan, Francia, Regno Unito e USA. In quell’occasione sono entrati in azione per gli USA sottomarini nucleari d’attacco classe Los Angeles, USS Pittsburgh, tre portaerei Nimitz, ciascuna delle quali dotata di un numero di aerei superiore a quello dell’intera aviazione iraniana, sono state scortate da 12 navi da guerra, compresi incrociatori, fregate, navi da attacco e migliaia di Marines e forze speciali a bordo. L’arsenale britannico è stato composto da sottomarini Trafalgar, navi dragamine, RFA Cardigan Bay, HMS Diamond, cacciatorpediniere di ultima generazione tra i più potenti, corvette saudite HMS Hitteen e Badr e le pakistane PNS Badr.

Incrociatori, aerei e cacciatorpediniere hanno simulato uno scenario da guerra in mare, cielo e terra con tattiche per la rottura di un eventuale blocco dello Stretto da parte iraniana (strategia dell’access-denial) ed esercitazioni di sminamento. I protagonisti di questi scenari di guerra ammettono di non sopravvalutare la potenzialità iraniana in quanto ad alta tecnologia, tuttavia dichiarano di temere azioni rapide e altamente distruttive da parte dell’Iran contro navi da guerra, mercantili e con lo spargimento di mine sui fondali del Golfo Persico. Le simulazioni hanno previsto anche l’abbattimento di jet da combattimento e di navi iraniane. In attesa di esercitazioni iraniane da qui a breve, si susseguono i moniti di leader statunitensi e israeliani. A questa catena di avvertimenti si era accodato anche Philip Hammond quando aveva dichiarato: “Siamo pronti a contribuire agli sforzi assunti dalla comunità internazionale al fine di assicurare il libero transito nelle acque internazionali dello Stretto di Hormuz”. Principale percorso via mare del 35% delle esportazioni di petrolio verso USA, UK, Europa e Giappone, pari a 18milioni di barili al giorno, lo Stretto di Hormuz è soprattutto il ventre molle delle tensioni tra Occidente e Iran, ed è lo spazio in cui si applicano le sanzioni statunitensi nei confronti di quest’ultimo. Di fronte agli “spauracchi iraniani” di chiudere lo Stretto, da tempo gli Emirati Arabi Uniti hanno avviato lavori per la costruzione di un canale di trasporto del grezzo via terra, che va dalla capitale Abu Dhabi in direzione nord-est del Paese fino al Golfo dell’Oman, attraversando l’Emirato di Fujairah.

Portata, impegno e frequenza di movimenti militari entro un’area che direttamente chiama in causa l’Iran, sono tutti aspetti che contribuiscono a marginalizzare la possibilità che altre questioni abbiano ricevuto particolare attenzione da parte di Hammond e del Sultano alla presenza dei vertici militari. A rinforzare quest’ipotesi contribuisce poi una valutazione delle posizioni omanite su questioni regionali. Certamente gli interventi del Paese ‘Oman su questioni spinose come l’attuale Siria o sull’eterno stallo in cui è stato relegato il principio di legalità e giustizia in Palestina, si ricorderanno per l’anonimato. Sulla Siria l’Oman si è limitato ad appoggiare in politica l’approccio formale della Lega Araba, accodandosi alla risoluzione di condanna a Bashar al-Asad, e chiudendo nel 2012 la sede diplomatica a Muscat. E se si è fatta strada l’opinione secondo cui Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Qatar siano impegnati nell’invio di armamenti all’opposizione siriana, non si riesce a individuare un ruolo omanita a tal riguardo. Più definito invece è sempre stato il rapporto dell’Oman con Israele, caratterizzato certo da intese di natura commerciale o per la consulenza in ingegneria per gli impianti di desalinizzazione, e genericamente segnato da un rifiuto per le azioni di boicottaggio promosse a livello regionale verso lo Stato occupante. Supponendo quindi che le parti abbiano sorvolato su questioni come quella siriana, limitandosi a mere dichiarazioni d’intenti sulla linea della comunità internazionale, con la visita del 2 ottobre – così a ridosso dell’incontro tra il Sultano e l’ambasciatore iraniano uscente, Hossein Noushabadi, – l’intento britannico potrebbe essere stato quello di non abbassare il livello di influenza sull’Oman, un Paese che rappresenta un’eccezione nel Golfo se si guarda alle distese relazioni che intrattiene con l’Iran.

La penisola di Musandam cerchiata in rosso
Quasi a voler rassicurare qualcuno, il giorno seguente alla visita di Hammond, il Sultano Qabus dichiarava pubblicamente l’intenzione di rafforzare rapporti e cooperazione con l’Iran sul piano economico e della difesa, richiamando un accordo siglato nel 2005. Gli accordi tra ‘Oman e Iran sono di vecchia data; si cita la storica riconoscenza per il supporto che lo Shah fornì nella repressione omanita dell’opposizione nella provincia di Dhofar (fine anni ’60), la cooperazione economica e di difesa (2005), l’accordo per lo sfruttamento congiunto di gas nello stretto di Hormuz (che l’Oman condivide con ‘Iraq, Kuwait, Qatar e Turkmenistan) e la lotta comune al contrabbando sulla penisola di Musandam, unico canale d’accesso omanita allo Stretto di Hormuz e terreno dove si concretizza la cooperazione militare con l’Iran. Agli occhi del Regno Unito la posizione di vicinato e l’amicizia che intercorre tra la Repubblica Islamica e l’Oman fanno del Sultanato una realtà dal grande potenziale. I suoi governanti concedono gran parte della propria sovranità alla Gran Bretagna (difesa e politica estera); rimettendosi all’esperienza britannica in campo militare, ne condivide fedelmente strategia e obiettivi e al contempo non rinuncia allo sviluppo proveniente dal fronte iraniano, sapendo bene di essere l’unico Paese della penisola arabica a vantare un rapporto privilegiato. Questa sorta di fratellanza, forse dettata pure dalla rilevante presenza di popolazione Balushi, presente anche in Iran e in Pakistan, pare non aver mai irritato nemmeno gli Usa, i quali alla firma dell’accordo di cooperazione militare tra ‘Oman e Iran (2010), avrebbero potuto contestare all’Oman una violazione all’Atto con il quale aveva decretato le sanzioni verso l’Iran. Evidentemente l’Oman è davvero un Paese strategico, ancor più se si soppesa la sua capacità di mantenere discrezione sulla propria politica, conducendo una silente collaborazione accordata agli alleati sui diversi fronti. Dall’11 settembre 2001 l’Oman ha optato per la visione nordamericana in termini di sicurezza nazionale e si è conformato alle misure adottate a livello istituzionale nella lotta al terrorismo: addestramenti speciali, scambio di informazioni di Intelligence, ricezione di sistemi altamente sofisticati per il controllo sulle frontiere.

Se da un lato è evidente che l‘Oman vive pienamente al riparo dallo schermo britannico, dall’altro si percepisce la presenza di una consapevolezza politico-strategico della dirigenza omanita, le cui scelte sembrano sottrarsi a qualunque format tra le chiavi di lettura a disposizione in geopolitica. E’ arduo tracciare un contorno ben definito delle scelte che provengono dal Sultanato, anche se contestualizzate in eventi come la recente visita di Hammond. Al di là di tutte le critiche mosse al Sultanato a causa delle sue ovvie e forse monotone prese di posizione, non si conoscono storie di eclatanti fallimenti nella sua storia. Situato in una posizione strategica e Paese dalle risorse appetibili, l’Oman dimostra invece di avere le idee chiare sulla strategia da seguire. Il codice da decifrare per comprenderla può essere contenuto nel grado di riservatezza che la sua leadership riesce ad assumere nei molteplici incarichi, ruoli (liberi o assegnati) e convinzioni, siano essi manifestati per mezzo di politiche di allineamento, del doppio binario, di asservimento, o siano essi di altra natura.


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