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Tra giornalismo e tweet: contenuti, internet e il senso del mestiere

Creato il 20 ottobre 2011 da Kappazeta

Difficile tornare sulla realtà di questi giorni dopo avere tenuto questo blog in stallo per oltre un mesetto. Anche se i fatti del 15 ottobre meriterebbero qualche riflessione approfondita. Fortunatamente in tanti hanno detto e scritto cose intelligenti e lucide su quanto è successo e, soprattutto, su quello che si prospetta nei mesi a venire. Cito solamente una discussione, sicuramente la più significativa e la più densa, che sta andando avanti da giorni su Giap. Ormai sono più di 400 commenti, ma con pazienza e un po’ di tempo vale la pena recuperarli tutti, link compresi.

Quanto a me e alle ragioni di questo prolungato silenzio, interrotto, per chi mi segue su Twitter, solo da qualche cinguettio quotidiano, sono tante e diverse. Prima di tutto una senso di fatica, che arriva a tratti, a seguire l’iper-produzione di contenuti della rete: fermarsi per un po’ di tempo dà come la sensazione di scomparire, di rimanere fuori e indietro. Ci sono giornate in cui scelgo di non buttare l’occhio sui social network (Twitter, soprattutto), nemmeno dal telefonino, staccando dall’aggiornamento costante di persone, siti e argomenti, per poi ritrovarmi anche in affanno a recuperare quei temi, i cui echi continuano a rimbalzare, di cui mi sono sfuggiti gli elementi originari.

Chiaramente non sto parlando della necessità di una disintossicazione: la rete è parte del nostro quotidiano, non è una cosa a sé stante. Si può mettere in atto una dieta mediatica rigorosa, ma stare senza internet è una cosa che non considero praticabile. Solo che qualche domanda, ogni tanto, ci scappa.

E allora mi chiedo se abbia senso seguire tutto, dove “tutto” è già una buona selezione sui tantissimi argomenti che mi interessano e che, anche come giornalista, cerco di seguire. La risposta non ce l’ho, ma anche la mia attività puramente giornalistica è calata negli ultimi mesi, però, in questo caso, ci sono altre ragioni a sovrapporsi: prima di tutto un problema di convinzione nell’affrontare questo mestiere, che non è legato solamente alla situazione di costante precarietà che si vive e alle condizioni in cui lo si fa, ma anche alla reale capacità di incidere sulla realtà che dovrebbe portare con sé il lavoro di ogni giorno.

Non apro nemmeno il discorso del sovraccarico informativo, della memoria, dell’approfondimento, che già lo conosciamo bene tutti e ci siamo comunque immersi fino al collo. Vorrei piuttosto sentir rispondere qualche collega alla domanda: che senso ha fare giornalismo oggi in Italia? Cosa resta del produrre ogni giorno articoli e servizi a parte i pochi spiccioli dei compensi? Si sta cercando di fare un lavoro culturale, prima ancora che politico, oppure si segue sempre il titolone, il clamore, il punto di vista immediato e superficiale su ciò che ci sta accadendo intorno? Perché io sto facendo sempre più fatica a seguire le notizie sui canali di stampa tradizionali (quotidiani – e relative edizioni online -, tele e radiogiornali). Perché ho la sensazione che le parole siano spesso vuote, che si continui ad abusare di frasi fatte e concetti bolliti, che non si riesca a esprimere qualcosa di nuovo, nemmeno nel linguaggio. Poi è chiaro che la realtà ci sfugge di mano, se non la sappiamo dire.

Mi rendo conto che riflettere sul giornalismo è riflettere di politica e in Italia in questo momento ho l’impressione che siano due strade estremamente difficili e piene di ostacoli. Perché “la catastrofe c’è già stata” e ormai non siamo più solamente noi della generazione locked in a essere chiusi in guscio di solitudine reale. Così si parte dal politico per parlare del privato e si finisce con il tornare, inesorabilmente, al politico. Vorrà pur dire qualcosa?


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