Il Mediterraneo brucia, e non solo per il caldo estivo. Le “primavere” nella sua costa sud e la crisi economica a nord, stanno mettendo in serio pericolo le testimonianze della sua storia. Che fare? C’è qualche azione che possiamo promuovere o mettere in campo per salvare il salvabile?
Era molto ambizioso il tema del convegno “Archeologia mediterranea tra crisi e conflitti” tenutosi a Chianciano dal 13 al 15 luglio scorsi, per iniziativa della Fondazione Musei Senesi. Così ambizioso che molti di noi temevano di parlare al vento. E invece il dibattito è stato teso, serrato, a volte anche esageratamente animato. Si sono positivamente confrontati punti di vista diversi su molti argomenti. Si sono toccati con mano infiniti problemi. Nessuno è tornato a casa con soluzioni in tasca ma con una rinnovata voglia di fare, pur sapendo che ogni azione richiederà un lavoro lungo e faticoso: un periodo di crisi e grandi cambiamenti come il nostro, in cui le questioni prima sopite vengono al pettine con chiarezza lampante, in cui le idee finora dominanti mostrano tutti i loro limiti, è anche il momento più propizio per suggerire qualche inversione di tendenza.
Un punto ci ha visti tutti d’accordo, archeologi classici ed egittologi, orientalisti ed esperti di politica internazionale: in realtà guerre e crisi hanno solo esasperato problemi già esistenti. I monumenti crollano, trascurati, in Italia come in Grecia, perché da tempo oramai ignoriamo la cultura della manutenzione. Mentre da tempo il mercato, o il marketing, fanno la voce grossa magnificando, per esempio, il Museo dell’Acropoli di Atene a tutto discapito del Museo archeologico nazionale greco, vera summa di meraviglie elleniche che i turisti oramai non visitano quasi più. L’intervento di Polixeni Veleni, direttrice del Museo archeologico di Salonicco, è stato puntuale e spietato nel mostrare le contraddizioni della politica culturale greca che ha moltiplicato i musei senza prevederne gli oneri di manutenzione, mentre la ricerca archeologica è in stallo e il pensionamento dei funzionari statali – non rimpiazzati – vanifica il controllo del territorio. Cambiando gli esempi, pareva un discorso fatto per l’Italia, come ben sappiamo. Gli eventi atmosferici impazzano, fanno crollare muri e affreschi, e noi guardiamo impotenti. In assenza di controlli, anche l’edilizia si espande indiscriminatamente. E i tombaroli fan festa.
I racconti del giornalista Fabio Isman su come l’Italia ha affrontato la “più grande razzia d’arte dai tempi di Napoleone”, come l’ha chiamata lui, parevano quasi storie da un tempo passato. Certo, oggi grazie all’azione dell’Italia e ai paesi che hanno seguito le sue orme, è stato colpito al cuore un “sistema” che faceva passare le opere d’arte attraverso la Svizzera o Londra per approdare nei grandi musei degli Stati Uniti. Oggi chi acquista opere d’arte è molto più cauto, non c’è dubbio. E soprattutto si sta diffondendo una sensibilità diversa. Però è anche vero che un acquirente ci sarà sempre: dopo gli americani, sono ora gli emiri del Golfo a comperare, e poi gli orientali e poi chissà. E i “sistemi” sono molti, non c’è solo quello svizzero. Ora tutto il Medio Oriente è colpito da un esodo di opere d’arte senza precedenti, grazie alle guerre che confondono le acque e consentono l’inosabile. Anche tesori da Afghanistan e Pakistan stanno invadendo sempre più i mercati d’arte. I furti sono molto più preoccupanti degli stessi danni di guerra, per quanto rilevanti come hanno mostrato Paolo Brusasco dell’Università di Genova per l’Iraq, ed Emma Cunliffe dell’Università di Durham per la Siria (che sta monitorando da mesi le devastazioni siriane con uno sforzo puntuale ed encomiabile). Anche in Egitto il numero di furti è lievitato a ritmo esponenziale, benché l’aumento di denunce sia sicuramente conseguenza del nuovo clima di libertà, come hanno osservato gli egittologi Ossama Abdel Meguid e Francesco Tiradritti.
Contro i furti esiste però uno strumento, ha osservato il presidente di Icom Italia Alberto Garlandini: è il codice etico Icom che impone una condotta esemplare almeno ai professionisti dei musei, ove manchino leggi nazionali o locali adeguate. Ma a volte la politica sovrasta ogni cosa: Eleni Vassilika, direttrice del Museo egizio di Torino, ha ricordato l’insistenza con cui nel 2008 il Ministero dei beni culturali italiano pretendeva che venisse esposto un oggetto di oscura provenienza come il Papiro di Artemidoro, proprio mentre combatteva la sua più aspra battaglia per la restituzione di quanto era stato sottratto illegalmente al nostro paese.
Due pesi e due misure adottano anche quei paesi che chiedono aiuti internazionali per restaurare e tutelare i proprio beni culturali in quanto “patrimonio dell’umanità”, ma non hanno scrupoli in altre occasioni a definire quegli stessi beni la “propria” eredità, come ha osservato l’egittologo Paolo Gallo dell’Università di Torino. Che ha evidenziato anche come la spettacolarizzazione della ricerca archeologica, che porta all’esaltazione del “bel pezzo” a scapito della ricostruzione della storia, stia diventando in tempi di crisi sempre più pericolosa: in assenza di finanziamenti pubblici adeguati, sempre più archeologi si trovano costretti a ricorrere a sponsor privati che pretendono sempre più lo “spettacolo”.
Tutti questi problemi e contraddizioni derivano dall’idea “religiosa” di bene culturale che l’Occidente ha oramai diffuso in tutto il mondo, ho puntualizzato io. Si dice retoricamente che il monumento-simbolo rappresenta le “radici” di un popolo e la sua identità, si esaltano i monumenti e i “bei pezzi”, col risultato che tutti li vogliono avere – nella migliore delle ipotesi – oppure in guerra li distruggono proprio in quanto simboli, e in pace li esaltano e al contempo li ignorano perché simboli e dunque troppo distanti dalla vita quotidiana. Non potremo mai conservare tutte le testimonianze del passato, garantire loro un’irreale vita eterna. Sarebbe preferibile tornare a guardarle nel loro contesto, come parte di una storia e una geografia e non isolate da tutto; interrogarci sulla loro utilità per noi piuttosto che solo per ipotetici posteri. Ho parlato di “laicizzare i monumenti”, scardinarli dalla inutile retorica del passato e del futuro per restituirli alla realtà. Alberto Garlandini, concludendo il convegno, ha parlato della necessità di un “cambio culturale” che evidenzi il ruolo del patrimonio culturale per una comunità, e lo utilizzi non per esaltare ipotetiche e pericolose “radici”, ma per favorire il dialogo tra le genti: perché non c’è mai una solo identità ma, in un mondo sempre più multiculturale, tutti noi viviamo identità multiple e intersecantisi.
Si è parlato molto durante il convegno di collaborazione e formazione degli esperti del futuro, come anche di catalogazione dei beni culturali. In particolare Hafed Walda del King’s College di Londra ha chiesto espressamente aiuto per formare gli esperti della nuova Libia. Garlandini ha puntualizzato quanto lo scambio di competenze e le nuove tecnologie servano innanzitutto a costruire saperi assieme. La parola d’ordine è “cooperazione”: nessuna decisione può essere presa unilateralmente, ognuno di noi è parte della comunità.
Cambiare mentalità radicate è impresa né semplice né immediata, ma proprio la crisi attuale ne ha evidenziato l’importanza. È tempo di rimboccarsi le maniche e cominciare.
Effe