Tra legalità e regole del gioco, l’Italia rischia d’essere divorata

Creato il 14 febbraio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Recentemente l’Italia è stata sconvolta da alcuni casi legati alla fattispecie penale della “corruzione internazionale”. Il caso più noto, e ultimo in ordine di tempo, è stato l’arresto dell’amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi e il confino domiciliare imposto all’amministratore delegato di Agusta Westland Bruno Spagnolini, accusati d’aver versato una tangente d’alcune decine di milioni di euro a militari indiani per fare sì che le società italiane si aggiudicassero un appalto da 556 milioni di euro per la fornitura di dodici elicotteri a Nuova Delhi. Nel 2012 un’indagine è stata avviata sull’ENI a proposito di presunte tangenti (20 milioni di euro) versate a burocrati kazaki per aggiundicarsi una fetta del gigantesco giacimento petrolifero di Kashagan, dove si stimano riserve pari a 13 miliardi di barili, equivalenti cioè all’intero fabbisogno di petrolio d’importazione dell’Italia nel prossimo ventennio. L’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, risulta da pochi giorni indagato per il presunto versamento di quasi 200 milioni di tangenti a funzionari algerini in cambio di una commessa da 11 miliardi di euro.

La fattispecie penale della “corruzione internazionale” deriva dalla Convenzione dell’OCSE del 17 dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, e prevede la responsabilità non solo del singolo funzionario corruttore ma anche dell’intera azienda da esso rappresentato. La direttiva è stata recepita dall’Italia con la legge 322-bis del 2000. La Convenzione è stata adottata dai 34 membri dell’OCSE (tutti gli Stati dell’Europa Occidentale fino a Polonia, Slovacchia e Ungheria; la Grecia, la Turchia e Israele; i paesi nordamericani; il Cile; Giappone e Corea del Sud; l’Australia) più Argentina, Brasile, Bulgaria, Colombia, Russia e Sudafrica; tuttavia si applica anche per fatti commessi in paesi terzi, com’è appunto il caso dell’India, del Kazakistan e dell’Algeria. Dunque si hanno 40 Stati aderenti alla Convenzione, ma 153 Stati al mondo che non vi aderiscono. Si tratta di una prima importante scrematura che determina condizioni di partenza inique. Le altre due scremature da fare riguardano il recepimento della Convenzione nella legislazione nazionale e la sua effettiva applicazione.

L’OCSE ha un processo di valutazione dell’implementazione della Convenzione strutturato su tre fasi: la fase 1 valuta l’adeguatezza della legislazione nazionale, la fase 2 verifica se il paese stia effettivamente applicando la legge e la fase 3 si focalizza sull’esecuzione della Convenzione, delle Raccomandazioni del 2009 e di altre raccomandazioni insorte durante il processo di revisione. Alcuni dei paesi firmatari della Convenzione risultano ancora fermi alla fase 2: è il caso di Argentina, Belgio, Brasile, Cechia, Cile, Danimarca, Estonia, Irlanda, Israele, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Slovenia, Sudafrica, Turchia, o addirittura alla fase 1 come la Colombia e la Russia. Dei 40 aderenti, solo 23 sono pertanto giunti alla terza ed ultima fase d’applicazione della Convenzione. Nel suo ultimo Rapporto dedicato all’Italia, datato dicembre 2011, l’OCSE loda il nostro paese, lamentando però che a causa dei tempi ristretti di prescrizione e della lunghezza dei processi pochi giungono a termine e con pene considerevoli.

Tra il novembre 2006 e il dicembre 2011 l’OCSE elenca 60 casi di incriminazione per corruzione internazionale in Italia. Si tratta dunque di circa un’incriminazione al mese. Negli USA, il paese che ha il maggior numero di condanne per corruzione internazionale, in 153 mesi tra il 1998 e il 2010 sono stati condannati (penalmente o civilmente) 147 tra individui e compagnie. È vero che in Italia le condanne sono state solamente 15, dunque circa una ogni 4 mesi – quattro volte meno che negli USA – ma gli Stati Uniti d’America hanno una popolazione che è cinque volte quella italiana. Tutto sommato si può concludere che l’Italia sia all’avanguardia mondiale nella lotta alla corruzione internazionale. Tanto più che in nessun altro paese sono state colpite compagnie così grandi e strategiche come Finmeccanica e ENI in Italia. Non bisogna poi dimenticare che numerosi effetti negativi ricadono sull’incriminato anche in assenza di condanna. Ad esempio, non si sa ancora se Finmeccanica sarà condannata, ma le possibilità di perdere la commessa indiana sono elevate, e quasi certo è che l’incasso del dovuto sarà ritardato di anni.

Infatti, l’India ha già annunciato la sospensione dei pagamenti e l’intera transazione è in stallo: se si confermasse l’accusa di corruzione su cui indaga la magistratura italiana, l’affare verrebbe annullato. La perdita della commessa da 556 milioni equivarrebbe a oltre un quarto dell’utile netto conseguito nell’anno 2011, oltre all’inserimento nella lista nera del governo indiano e dunque l’impossibilità di fare futuri affari con Nuova Delhi, un paese che sta espandendo in maniera considerevole il proprio bilancio della Difesa (nel 2012-13 il 17,6% in più che nel biennio precedente) e che attualmente è il maggiore importatore al mondo di armi. La società italiana perderebbe insomma un mercato d’importazione che costituisce da solo circa il 10% di quello mondiale delle armi ed è in costante crescita. Finmeccanica è un colosso posseduto al 30% dallo Stato italiano (dunque con l’erario pubblico colpito anche dal crollo in borsa conseguenza dell’arresto di Orsi), con un fatturato da oltre 17 miliardi l’anno e più di 70.000 dipendenti, di cui poco meno di 40.000 in Italia (a titolo di raffronto, la FIAT ne ha poco più di 60.000). Oltre a impiegare un gran numero di laureati (circa un dipendente su tre), Finmeccanica investe annualmente in ricerca e sviluppo più di 2 miliardi di euro. Tutto ciò rende l’idea di quanto la società sia importante per il tessuto economico italiano, anche senza prendere in considerazione la non meno fondamentale questione strategica: Finmeccanica è il più grande produttore d’armamenti italiano, l’unico in grado di sviluppare i sistemi d’arma più sofisticati.

Discorso non dissimile, ma anzi amplificato vista la magnitudo del soggetto, si potrebbe fare per l’altro grande bersaglio delle accuse di corruzione internazionale, ossia l’ENI. Nata come ente pubblico, l’ENI è ancora oggi controllata dallo Stato per più del 30% delle sue quote azionarie. I ricavi del 2011 sono ammontati a poco meno di 110 miliardi di euro; la società ha partecipazioni per più di 30 miliardi e quasi 80.000 dipendenti. Secondo la classifica Platt del 2012 l’ENI è la diciassettesima maggiore società energetica al mondo, la controllata Snam è la quarta più importante nel settore utenze gas. Da tempo l’ENI è però nel mirino di aspiranti acquirenti stranieri. Il fondo statunitense Knight Vinke, che ha una piccola quota nell’azionariato ENI (1%) si batte aspramente per lo scorporo di Snam dall’ENI, affermando che ciò permetterebbe un subitaneo apprezzamento delle azioni del Cane a Sei Zampe. La società si è a lungo opposta, per tutelare la solidità strategica anche a scapito dell’ipotetico interesse degli speculatori, ma la campagna di Knight Vinke è stata appoggiata dal Financial Times ed è andata di pari passo con un’azione intrapresa dall’Unione Europea e che ha costretto l’ENI a cedere le sue partecipazioni nelle imprese che trasportano il gas dalla Russia all’Italia. Non va dimenticato, per valutare il quadro nel suo complesso, che l’ENI ha un’alleanza strategica con la russa Gazprom, mentre Bruxelles preme per diminuire la quota della Russia nell’approvvigionamento energetico dell’Europa. Scaroni ha alfine ceduto, accettando lo scorporo a patto che Snam vada in mani gradite al governo. Lo scorso anno, nel pacchetto di liberalizzazioni, il governo Monti ha incluso un decreto per lo scorporo di Snam dall’ENI. Una parte delle azioni (il 30%) rimane allo Stato tramite la Cassa Depositi e Prestiti, mentre l’ENI sta cedendo tutto il resto.

Un’altra questione su cui il governo uscente di Mario Monti ha ceduto rispetto alle pressioni internazionali è quella della cosiddetta golden share. Durante il processo di privatizzazione delle aziende pubbliche lo Stato ha mantenuto una partecipazione inferiore alla maggioranza assoluta, ma riservandosi per legge una serie di prerogative che di fatto mantenevano il controllo pubblico su di esse. Durante la recente crisi del debito italiano l’Unione Europea ha negoziato con Roma, in cambio del sostegno finanziario, la rinuncia alle golden shares. Il decreto varato da Monti nel corso del 2012 riduce sensibilmente le prerogative statali, limitandole a un potere di veto circostanziato e in casi eccezionali. Ciò agevolerà la perdita di controllo d’importanti aziende. Come ha sottolineato un recentissimo articolo de “Il Sole 24 Ore” firmato da Marco Ludovico, numerose multinazionali estere appaiono interessate a sfruttare la crisi finanziaria italiana per accaparrarsi gioielli della nostra industria. Questa minaccia è stata oggetto anche d’una relazione prodotta nel dicembre scorso dai servizi segreti italiani. In particolare, pare che Finmeccanica faccia gola a soggetti francesi, tedeschi e statunitensi. Le indagini condotte dalla procura di Busto Arsizio, con filoni minori a Roma, Napoli e altre città, potrebbero agevolare tali soggetti.

Questo è dunque il contesto in cui s’inseriscono le importanti azioni giudiziarie che colpiscono Finmeccanica ed ENI, addirittura decapitando la prima. Ovviamente non è possibile biasimare le procure che stanno conducendo le indagini sulle due società, essendovi l’obbligatorietà dell’azione penale. Potrebbe tuttavia essere d’interesse capire come e per quali vie siano giunte le notizie di reato che le hanno fatte scattare. Di certo c’è che le vittime dei presunti crimini non si situano in Italia ma all’esterno. Infatti, tramite il versamento di tangenti Orsi e Scaroni avrebbero procacciato buoni affari alle rispettive società a partecipazione pubblica. L’India e l’Algeria potrebbero lamentare un danno, nel momento in cui l’assegnazione di appalti è stata manovrata tramite metodi illeciti; ma singolare è che le indagini e le incriminazioni siano venute dall’Italia, beneficiaria dell’operazione, anziché dai paesi che ne sono vittime: a determinarlo è la suddetta Convenzione dell’OCSE. Vittime sono inoltre le concorrenti straniere delle società italiane, ma qui si potrebbe innescare un nuovo discorso. Le tangenti per la vittoria di questi appalti multi-milionari sono un’esclusiva italiana, oppure una pratica comune anche tra le grandi società estere, a maggior ragione quelle dei paesi (la larga maggioranza) che non hanno sottoscritto la Convenzione OCSE? È quest’ultima la tesi sostenuta dall’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, secondo cui «la tangente è un fenomeno che esiste ed è inutile negare questa condizione di necessità se si ha da trattare con qualche regime o paese del terzo mondo [...] altrimenti non si fa l’imprenditore a livelli globali». Più generici sono stati invece l’attuale capo del Governo, Mario Monti, che si è limitato a parlare di un «problema di governance», e colui che viene indicato come il probabile futuro primo ministro, Pierluigi Bersani, secondo cui è necessaria una «riflessione sulla corruzione internazionale».

Certamente bisogna riflettere sul problema della corruzione internazionale, perché due delle maggiori aziende italiane per fatturato (secondo i dati del 2009, ENI seconda e Finmeccanica ottava) e numero di dipendenti rischiano di vedere irreparabilmente compromessa la loro capacità di fare affari all’estero. Dal momento che l’Italia non può produrre in casa l’energia di cui ha bisogno, e che il bilancio pubblico non permette d’assorbire grossi importi d’armamenti, va da sé che un brusco calo dell’attività fuori dal paese significherebbe per i due colossi un duro colpo, potenzialmente esiziale. L’Italia si è imposta delle norme che gran parte del mondo non segue, e che forse anche l’altra parte finge solo di rispettare. Può essere impopolare affermarlo, ma talvolta le regole del gioco non possono essere costituite a tavolino dai giurisperiti; è il mondo reale con le sue dinamiche a fissarle, e chi non si riesce ad adattarvisi né ha la forza sufficiente per cambiarle, è condannato al fallimento. E ad essere divorato da altri più spregiudicati.


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