“Trance“, in termini medici indica uno stato modificato di coscienza, caratterizzato da un’alterazione di sè, del proprio corpo e dell’ambiente circostante, solitamente indotto tramite ipnosi. Da qui prende spunto Danny Boyle, il regista sperimentatore, non solo per il soggetto del suo film, appunto un thriller girato tra la mente e la realtà di un uomo, ma soprattutto per lo stato in cui pone lo spettatore. Come è sua abitudine, si vedano “Trainspotting” o “The beach” per ulteriori chiarimenti, non vi sono variazioni cromatiche o musicali che sanciscano il passaggio tra realtà e finzione, ma è tutto estremamente lineare, cosa che ovviamente rende ostica la comprensione. “Trance” è un’opera rompicapo, complicata persino da raccontare, eccezion fatta per un innocuo plot: durante la rapina di un’opera d’arte il protagonista viene colpito alla testa perdendo conoscenza e memoria. Sarà compito di una psicoterapeuta, attraverso l’ipnosi, riuscire a recuperare i ricordi di ciò che è successo e ritrovare il quadro che è stato nascosto. Alla evidente linearità di una trama neppure troppo originale, si intersecano elementi sorprendenti, colpi di scena impensabili o forse solo difficilmente intuibili, attacchi sensoriali che generano spaesamento, sequenze oniriche che si confondono nella mente del protagonista e dello spettatore creando cortocircuiti mentali. Tutto questo perchè la psicoterapeuta Rosario Dawson (il suo nudo integrale, molto più che quello in “Alexander“, è destinato a rimanere un momento indelebile del cinema contemporaneo) ha dei segreti, il protagonista James McAvoy sembra ma non è, il cattivo Vincent Cassel, lontano parente del rapinatore raffinatissimo di “Ocean’s twelve“, rimane nell’ombra misteriosa e affascinante. Tutti i vertici di questo triangolo cambiano i propri ruoli rapidamente e si spostano con leggiadria dall’ingenuità alla malizia, dal “bene” al “male”, come fossero pedine di uno scacchiere più grande. Ma a giocare a scacchi c’è Danny Boyle con gli spettatori. Senza incorrere nel tranello di svelare dettagli che rovinerebbero la visione, è fondamentale sottolineare che il film è un delirio, anche grazie all’uso delle musiche di Rick Smith, di immagini, di percezione e di visioni, che, un po’ come è stato per “Inception” di Nolan, vive di strati difficili da decifrare. I protagonisti sono tutti cuciti nei loro personaggi, muovendosi tra noir, caper movie (il cosiddetto “film del colpo grosso”), dramma, filosofico, romantico e psicologico, in un minestrone miscelato con grazia e maestria. Tutto è funzionale alla messa in scena, persino lo spettatore, che deve perdersi tra ciò che è reale e ciò che non lo è, e Danny Boyle ancora una volta si spinge oltre, senza limiti e freni, nell’indagine di un’espiazione (in “Trainspotting” era la droga, in “The Millionaire” era l’accusa di frode, in “127 ore” era l’amputazione del braccio). Forse qualcuno potrà criticare il film per una mancanza di approfondimento della psicologia dei protagonisti, o dell’eccessiva ed omogenea mescolanza tra realtà e finzione, tuttavia la pellicola di Boyle non ha la pretesa di analizzare l’ipnosi e lo stato di trance dal punto di vista medico, con relative conseguenze, bensì è un pretesto per esprimere l’inventiva del regista che vede il cinema come un’esperienza totalizzante, dalle immagini alle interpretazioni, dalle musiche alle sensazioni. Alcune scene, su tutte la testa mozzata di Vincent Cassel che continua a parlare e l’elegantissima nudità di Rosario Dawson, rimarranno talmente impresse che sarà davvero difficile dimenticarle. In definitiva, come direbbe il personaggio di James McAvoy: “La scelta è tua. Vuoi ricordare o non vuoi dimenticare?“
Voto 7,5/10