Sono uno di quei bambini fortunati. A differenza dei ragazzini di oggi, che vanno al cinema a guardarsi i Transformers, Autobots e Decepticons, strafatti di inglese, CGI e tecnologia, robottoni che noi ce li sognavamo, io sono vissuto in un’epoca in cui, ancora, si adoperava il ferro per costruire i giocattoli. Parti in metallo pericolosissime, che avrebbero sfondato lo stomaco in due minuti, a ingoiarle. Ma non ero uno scemo, io.
All’epoca si chiamavano Trasformer, senza “n” e senza “s” finale. E c’era una Lancia Stratos che sarebbe divenuta “Saetta”. Il nucleo primigenio dei miei giocattoli, robot trasformabili.
E poi ancora si chiamavano Autorobot e Distructors, ed erano doppiati da schifo. Però, la mente del bambino me li faceva amare. Sembravano superbi, quei disegni squadrati, e quelle voci folli, a risaltare dialoghi dello stesso tipo. Eppure, i ricordi la fanno da padrone. Colorati di magnificenza fantastica. Il sense of wonder. Eccolo lì.
In questi giorni, complice l’afa, ho visto la trilogia cinematografica e, poi, per capire ciò che avevo lasciato alle spalle, sono andato a ripescare qualche episodio della serie, quella del 1984-1987, su YouTube. La trovate tutta. È lì che vi aspetta, ma occhio, perché il tuffo nel passato può rivelarsi doloroso.
Sorpresa, c’è ancora chi la ama. Militanti della prima ora che, tra le mani, proprio come me, stringevano avidi e gelosi il proprio modellino di Commander (per i profani e pagani, Optimus Prime). La serie a cartoni animati gode di un 8.2 su 10. Un tripudio. Anche eccessivo, se si pensa a quel duo di cattivi da operetta che erano Megatron e Astrum (Starscream, come sopra). L’unico figo, dalla prima all’ultima puntata era Memor (di questo, sorry, non ricordo il nome “vero”), con le sue cassette. Memor era un mangianastri robotico; il non plus ultra della tecnologia giapponese: apoteosi degli anni Ottanta.
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Questo per dirvi che, nel pensare a questi tre film, del 2007, 2009 e 2011 dovete tenere presente una cosa: i Transformers sono nati neppure da un cartone animato, ma dai giocattoli. Questa è la somma tradizione alla quale ci si può appellare, nel tentativo difficile, lo ammetto, di dar loro dignità cinematografica.
Ma prima di dare addosso a Michael Bay, pensiamo a Cybertron, casa dei robottoni trasformabili.
Un pianeta morto, per come lo ricordo, completamente sopraffatto dal ferro. Privo di atmosfera e pieno zeppo di robot in guerra, non si sa bene per quale motivo.
Un’orgia di metallo ed energon, stipato in luminosi cubi fucsia, l’energia che sostiene i transformers. E questo è quanto. Gli Autorobot sono avversari dei Distructors, che sono i cattivi.
Storia zero. Zero approndondimento psicologico. E, d’altro canto, che razza di approfondimento si può fare entrare sullo stringato spazietto presente sul retro delle confezioni di giocattoli?
Roba veloce, quindi, adatta a essere riversata così, su due piedi, in versione animata. Tanto il pubblico sta lì per godersi il miracolo, la stra-figata del robot che diviene macchina, persino una bella macchina, Ferrari o Porsche o Lamborghini, e viceversa. La magia era tutta lì. E bisognava esaltarla con quei pochi mezzi che si aveva a disposizione.
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Michael Bay sembra che abbia tenuto presente la lezione del cartone e dei giocattoli, nel confezionare la sua trilogia. Niente di più. Ma il punto è, sulla base di queste premesse, si sarebbe potuto (e dovuto) attualizzare e, soprattutto, drammatizzare il tutto? Una versione della storia per ragazzi, d’accordo, ma con sfaccettature intriganti, scene passionali e contrasti filosofico-esistenzialisti tra robot?
Nessuno più di me avrebbe gradito un tale adattamento. Ma le cose non stanno così.
A cominciare dagli umani. Ve li ricordate? Nel cartone erano poco più di quattro tavole animate e cinque, sei battute, sostanzialmente inutili ai fini di ciascun episodio, giocato solo e soltanto sul contrasto tra le fazioni in lotta e sulla bellezza della novità robo-trasformabile. E si andava fuori di testa.
Gli umani di questo film sono parodie, inutile girarci intorno. Non dico non possano esistere, ma sono archetipi anche loro, di quel modo di intendere cinema e società proprio di quegli stessi anni, gli ottanta, dei quali non riusciamo a liberarci e sui quali, al contrario, ci affanniamo a costruire omaggi che sanno di vuoto pneumatico, perché certe deviazioni mentali noi, oggi, proprio non riusciamo a capirle più, o meglio, non riusciamo più a ricordarle.
E allora Shia LaBeouf (che pare il nome di un halfling) e Megan Fox nei ruoli dell’imbranato, sfigato-ma-non-troppo-ma-simpatico e la bella-stronza-dal-cuore-d’oro che stanno insieme sullo sfondo di una guerra tra robottoni giganti. Poi sostituita, al terzo capitolo, da un’ombra insipida.
Facile capire che la trama, di tutti e tre i film, sia completamente asservita al miracolo visivo-meccanico degli effetti speciali. Non c’è spazio per altro, neppure tanto per Megan che sì, si intuisce, apre il cofano e sistema lo spiterogeno, che pare una metafora gretta, ma sostanziale. Ma non basta. Non vogliamo mica provare a ritrarre una donna vera, eh Michael Bay? Mascheriamo un personaggio scemo e spacciamolo per figo, Mikaela (ma vale per tutti gli altri). E se l’attrice, bella e persino sveglia, guardate un po’, osa dirgli che il suo personaggio fa cagare, lui la caccia e ne prende una ancora più imbelle, persino nello sguardo che sa già d’ammaestrato. Proprio come il “nuovo” personaggio che lei, che di nome fa Rosie Huntington-Whiteley, interpreta.
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E sono uno di quelli che s’è divertito, persino. A vedere i siparietti comici del cagnolino di casa Witwicky, Mojo, che fa pipì sul piede del robottone incazzoso e ben armato.
Perché, in fondo, Megan Fox a parte, ‘sti film li vedi perché ci sono loro, i Transformers. Altissimi, bullonatissimi e coloratissimi. C’è solo un però: ma qualcuno di voi è riuscito a vederli?
La figata della trasformazione dettagliatissima, veloce o lenta, a seconda del momento e della sua solennità. Eppure i volti sfuggono in quello sbrilluccichio di metallo cromato, tipico delle motrici americane. Per non parlare, poi, dei duelli incredibili, velocissimi dei quali, a parte qualche rallentamento che serve a Bay per far vedere quanto è bravo (dice lui) con la cinepresa, non si scorge molto di più che un vortice di metallo, due robot che si pestano mescolandosi e perdendo la loro identità. Cosa che, da nostalgico della prima ora, pesa.
Perché se è vero che sono lì, in sala, per guardare la sfilata dei robot, è anche vero che mi piacerebbe riconoscerli e guardarli nei dettagli. Capire perché sono lì, cosa sono, un accenno di storia.
E allora, a partire dalla prima inquadratura Bay mi promette la suddetta sfilata: un Decepticon che si trasforma in elicottero. E mi promette anche psicologia spicciola, introducendo comprimari umani a iosa e facendoli uscire di scena più rapido di un battito d’ali d’un colibrì.
E ci può anche stare. Se vado a vedere Transformers (1, 2 o 3) non mi aspetto 2001: Odissea nello Spazio.
Però, caro Bay, sono adulto. E sono disposto anche a pagare. E faccio anche parte della fetta più grande, ebbene sì, del pubblico per questo film. Ragion per cui, avrei gradito che ti fossi sforzato di più per regalarmi ciò che, per ovvie ragioni, la serie animata e men che mai i giocattoli avrebbero potuto darmi: una storia di fantascienza.
E invece solo macchine e metallo urlante, dai contorni indistinguibili, raccattando spunti di sceneggiatura qua e là, come capita: qui ci mettiamo tre piramidi che fa figo, lì il Polo Nord che ci sta sempre bene, qui i servizi segreti e tutta una pletora di personaggi più o meno ridicoli e più o meno insopportabili, a seconda, politici avidi e pavidi, soldati giusti e, per l’appunto, adolescenti cazzoni e vuoti.
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E adesso, con chi ce la vogliamo prendere? Si sarebbe potuto fare di meglio?
Di questi tempi, ho paura di rispondere a questa domanda.
E poi, guardando tutta la trilogia con gli occhi da bambino, io direi che Bay non ha fatto altro che questo: adattare un cartone animato al grande schermo.
Perché è ciò che abbiamo davanti. Scelte illogiche, spassose, infinitamente arbitrarie e dozzinali. Sulle quali tutto si può fare, tranne costruire una trama. Unite a una disarmante superficialità nel costruire e presentarci i personaggi, tali soltanto per l’aspetto degli attori, e per le poche battute che pronunciano. Battute già sentite, infarcite di retorica. Ma, ehi, Commander e Megatron era così che parlavano. Non ce lo dimentichiamo.
E Cybertron e i suoi abitanti restano un sogno a occhi aperti, illogico e incomprensibile, intorno al quale, pur essendoci le potenzialità, ci si rifiuta di indagare. Perché gli Autobot sono figure dell’infanzia. Restano lì, come tante altre. Te le ricordi ogni volta che ti siedi su un’auto. Ti ricordi il suono della loro trasformazione. E ti ricordi Megan, una novità assoluta; ma questa è un’altra storia…
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