Lo so che non interessa a nessuno. Però c’è stato un periodo della mia vita, anche piuttosto lungo (durato anni, per intenderci), in cui mi guardavo attorno e non vedevo niente. Avevo un lavoro che non amavo affatto ma che dovevo fare perché si deve pur campare.
Non ho mai amato un solo lavoro che ho svolto, dal 1985 in avanti, ma questa è un’altra storia. Quello che voglio dire è altro.
A quei tempi pensavo che fosse ridicolo scrivere di quello che vedevo. Se tentavo di fissare lo sguardo su quello che avevo, venivo colto da insofferenza. Tutto era banale, piatto. Mentre c’era il bisogno, la necessità (oppure il dovere? O forse tutti e tre?) di scrivere ben altro.
Non potevo permettermi di badare alla robetta, io.
Purtroppo per chi si avvicina alla scrittura, dietro l’espressione ben altro c’è una palude con le sabbie mobili. Lui non le vede: e come potrebbe? Se non è in grado di spremere alcunché da ciò che lo circonda, non è possibile neppure riconoscere un pericolo nemmeno se ci finisci dentro con tutte le scarpe, i calzini e il resto. Questo accade perché è abbagliato da un sacco di idee balorde, e nessuno nelle vicinanze che a colpi d’ascia ne faccia giustizia sommaria.
Solo dopo parecchi anni ho compreso che affrontare la vita che scorre lì accanto senza la zavorra dell’ideologia non solo era naturale, ma persino ovvio. Non è necessario vivere chissà cosa per scrivere: basta rivolgersi a quello che ci circonda.
Se si ha difficoltà a parlare di macchinette del caffè o piatti di riso in bianco, vuol dire che si ha la testa tra le nuvole.
Però non basta certo prendere quello che abbiamo attorno; lo già scritto più di una volta, credo. Un po’ come fa lo scultore, è indispensabile prendere la materia bruta, il marmo, e trasformarlo. Non è affatto facile, ma ricordiamoci che nemmeno lo deve essere, e nessuno ce lo chiede. Se vuoi la bicicletta prendila pure, però dopo ricorda che tocca a te pedalare.
Scrivere con realismo e onestà non significa limitarsi a riportare i fatti, secondo me. Ma al contrario, vuol dire infondere in quella materia pesante, sorda alla bellezza, uno slancio verso l’arte. Non è detto che riesca sul serio, ma l’impegno deve essere in quella direzione. Alla fine il lettore dovrebbe percepire nel testo che ha terminato (romanzo o racconti che siano), la fatica di rendere la vita quotidiana, qualcosa di simile all’arte.
Magari il tentativo riesce poco, male: però la tensione deve essere palpabile. “Greenleaf” di Flannery O’Connor va proprio in quella direzione. Idem “La Briglia” di Raymond Carver. Quando se ne termina la lettura si ha la sensazione che la fine, sia una sorta di scippo. Siamo stati cioè ai piedi di qualcosa di grande, forse persino maestoso: ce lo avevamo lì accanto ma non ci avevamo mai prestato attenzione.
Come se dietro casa, scoprissimo una maestosa vetta, capace di mozzare il fiato.
E vorremmo che l’autore invece di finire, continuasse, o ricominciasse con qualcosa di nuovo: un’altra storia.
Perché in quella che abbiamo appena terminato di leggere c’erano un mucchio di elementi che riconosciamo come nostri, o addirittura siamo proprio noi. Però non è quello che ci ha spinto a continuare la lettura. Bensì la rivelazione che c’è dell’altro, è grande e prezioso, e ce lo meritiamo. Anche se attorno a noi in tanti la pensano in maniera diversa.
Per questo esiste certa televisione: per perpetuare la menzogna.