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Trasformarsi in un pianto

Creato il 13 febbraio 2012 da Illcox @illcox

Le sei meno un quarto. È ora di scendere credo. Ma è buio pesto e non vedo nulla. Dannate stazioni. Saremo arrivati? Mi avvicino a due ragazzi in attesa vicino alle porte: <<scendete a Chieti?>>. <<Si>>. <<ok, grazie>>.
I freni fischiano rumorosamente. Il treno si arresta. Mi affaccio per controllare che sia la stazione di Chieti. Scendo.
Ho un passo svelto, come sempre del resto. Mi dirigo verso l’uscita. Il piazzale antistante è pieno di macchine. È sempre così a quest’ora.

Non mi rendo subito conto di quali siano i miei pensieri in quel momento. So solo che ad un certo punto il ritmo dei passi, il movimento del corpo, il battito del cuore, la vetrina luminosa, i passanti distratti e indifferenti, la strada affollata, il marciapiede asfaltato male..tutto, si è accordato improvvisamente ad una pioggia di lacrime.

Ho avvertito gli occhi inumidirsi e poi bagnarsi piano. Piango. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, come l’ultima cosa da fare prima di morire, e come la prima cosa che ho fatto quando sono venuta al mondo. Piango e ho voglia di piangere e il mio pianto diventa il pianto di un bambino, di un povero, di una puttana: disperato, forte, sordo. Piango e voglio piangere ancora, voglio piangere fino ad asciugarmi, voglio piangere farmi lacrima io stessa, e scivolare via.

Adesso avverto una stretta all’altezza del petto. È una mano che vuole soffocarmi, che vuole opprimermi, bloccarmi, incastrarmi in un groviglio di pensieri assordanti, legarmi a sé e farmi sprofondare, trascinarmi nel buio di voci senza senso che bisbigliano e poi, senza fare rumore, gridano. Il cuore in una morsa. Le costole si sono trasformate in sbarre: sono in trappola. No. Sono la carceriera di me stessa.

Ho paura. Che bella la paura! Sono ancora viva allora, posso ancora salvarmi. Continuo a camminare, sempre col solito passo svelto. Chissà dove voglio arrivare? Dove vogliono arrivare i miei pensieri, forse. Ma quelli corrono troppo in fretta e raggiungerli è impossibile. Ma è come se vagassi dietro a loro inseguendo dei miraggi, oscuri miraggi. E non riesco a fermarmi.
Tutto esiste ancora attorno a me, ma vive tacito. Il mio pianto sta urlando più forte. Non lo sento il mondo, con quel suo ritmo infernale. La mia paura grida di più.

Cerco di recuperare una parvenza di normalità, quella che ormai credo di aver perso, sciolta nelle lacrime che mi stanno rigando il viso. Chiudo gli occhi, li stringo forte. “Calmati!”, mi ripeto. Mi porto una mano sul petto. Mi accorgo, poi, che si tratta di un gesto istintivo, come di chi voglia proteggersi o voglia raccogliere tutta la propria persona sotto il calore di un palmo. È un gesto riflessivo: mi voglio difendere. Ma da chi? È come se volessi impedire al mio cuore di saltare fuori. La mia mano che preme lo sta implorando di non abbandonarmi. La razionalità lo sta facendo.
Il respiro: è profondo. Lo trattengo: non voglio che mi portino via anche quello. E no, non sto pregando nessun Dio di restituirmi l’anima.

Sono arrivata a casa senza rendermene conto. I gesti si susseguono meccanici: cancello, scale, portone. Il letto è la mia prossima destinazione, la stazione finale di un treno che ha viaggiato solo in galleria e che spero sia di sola andata.
Qualche lacrima resiste ancora. Mi distendo lentamente e mi copro fino alla testa: non la voglio sentire più, è insopportabile.
Adesso sono solo un trionfo di volere. Voglio che mi restituiscano la realtà, il letto caldo, la mia stanza ordinata, quella vetrina luminosa, i passanti distratti e indifferenti, la strada affollata, il marciapiede asfaltato male, voglio far smettere quelle voci mute agitarsi dentro la testa, voglio tornare a sentir pulsare il cuore, voglio che l’unico rumore assordante sia quello della mia anima, voglio che mi restituiscano me.

Dopo potrei anche dissolvermi come lacrima nell’aria.


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