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Trasformazioni e continuità: dal Fascismo alla Repubblica (parte seconda)

Creato il 10 gennaio 2012 da Ilcasos @ilcasos
Trasformazioni e continuità: dal Fascismo alla Repubblica (parte seconda)

La folla festeggia al Campidoglio la proclamazione della Repubblica Italiana, 18 giugno 1945

Come si è visto nella prima parte, il rapporto tra il diritto e la struttura dello Stato è tanto stretto da sembrare uno la compenetrazione dell’altro. Allo stesso modo, il legame tra forza, persona e diritto sembra non poter prescindere da una continua riproposizione delle basi del governo a cui si fa capo[1]: nel totalitarismo la forza (del diritto) diventa base del potere statale, il concetto di individuo-persona tende ad essere negato, e lo Stato di diritto diventa un qualcosa di slegato dal suo significato originario. In tutto questo, la retorica propagandista di regime indica il sistema fascista come nuovo rispetto al sistema liberale precedente. L’insofferenza per il vecchio, così evidente nell’arte del Ventennio, nell’accezione estetica futurista, si ritrova anche nella rielaborazione dell’edificio statale, avviando analisi che, in realtà, riprendono eredità precedenti per trasmutarle secondo dettami totalizzanti. Nelle parole di Paolo Grossi:

Il ventennio fascista incarnò in Italia una realtà polimorfica, manifestatasi alla superficie nella escrescenza ripugnante del regime autoritario, ma recante più in profondo segni e motivi, e di conseguenza riflessione, che, portando avanti la crisi del “moderno”, continuavano a scrivere – e in modo sempre più marcato – una pagina del futuro.[2]

Quest’insofferenza per il vecchio, ed il sentimento di crisi da cui scaturisce, è ugualmente rintracciabile nella guerra e nel dopoguerra, ma stavolta è il fascismo il “vecchio” a cui ci si ribella. Bisogna dunque cominciare dalla guerra civile[3] per chiarire come cambiano il ruolo della cittadinanza e la percezione dell’appartenenza allo Stato. Seguendo il ragionamento di Simone Neri Serneri, il proposito che muove la lotta contro il regime è quello di costruire un ordine nuovo

attraverso la mobilitazione della società civile e di forgiare questo ordine, le sue istituzioni e i suoi valori, già nella guerra: durante la guerra civile e per mezzo della guerra civile si ricostitu[scono] le organizzazioni politiche, si selezion[a] un nuovo ceto politico, si delinea[no] i tratti portanti del sistema politico-istituzionale al quale – concluse le guerre, quella internazionale e civile – la stagione costituente diede forma compiuta e contenuti definiti.[4]

Il concetto di guerra civile rientra nei meccanismi di composizione della società del secondo dopoguerra proprio per il carattere “civile” del conflitto: nella ridefinizione degli spazi di rappresentanza. Ridefinizione seguita alla crisi che i sistemi ottocenteschi non seppero evitare, indipendentemente dal loro carattere più o meno liberale. È un fenomeno, questo, che si può individuare per l’intera società europea, risultante dai comuni processi di trasformazione. Sempre per Neri Serneri,

[l]a guerra civile è guerra politica per eccellenza, proprio perché non si nutre di aspirazioni ideali e palingenetiche, non presuppone l’antitesi tra Stato e società civile, tra potere e sudditi, ma perché la posta in gioco è la definizione delle norme e degli istituti della politica: è un conflitto aperto in seno alla società civile per rifondare l’ordinamento costitutivo della comunità politica, per riformulare le regole del gioco – le procedure e gli spazi – dell’azione politica. La guerra civile testimonia la frattura della polis ed è la modalità estrema cui si ricorre per ricomporre – evidentemente su altri presupposti e con altri assetti – quella frattura. […] guerra politica che diventa fratricida solo in conseguenza dell’essere combattuta, per effetto dell’odio sviluppato per l’avversario, della memoria delle sofferenze inflitte e subite da chi vive nel medesimo territorio sociale. Ma questo tragico carattere acquisito non deve far dimenticare la sua prima sostanza logica e storica.[5]

Una posta in gioco molto alta viene posta sul tavolo: le «norme e istituti della politica»[6]. Il concetto stesso di guerra civile, infatti, ci riconduce alle polarità del sistema politico, al nesso tra sovranità e Stato; due elementi che vengono a disgregarsi nell’imperversare della crisi, lasciando però un punto di sfogo alla società civile:

 di quella società ove identità e interessi si aggregano e si mobilitano per garantirsi libertà di accesso alle risorse collettive, anche – e non da ultimo – richiedendo riconoscimento e autonomia da parte delle istituzioni pubbliche.[7]

Questa caratteristica non è esclusiva del movimento antifascista, ma è comune anche al primo fascismo: quello che aveva deliberatamente usato la violenza per vincere di fronte ai conflitti sociali del primo dopoguerra[8]. È nel corso del conflitto mondiale che la guerra al fascismo diventa l’unico modo per rimodellare la società in chiave democratica, ed in Italia, con la nascita della RSI e l’occupazione tedesca, la lotta armata come alternativa ideologica e politica diventa una scelta inevitabile[9]. Molto ci sarebbe da dire sul carattere europeo, sulla struttura del movimento antifascista e sul portato “critico” (come ferita aperta della società, oltre che come opposizione reciproca) della dicotomia fascismo/antifascismo. Punti-chiave che non possono essere approfonditi qui, ma che lasciamo in sospeso.

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Un'immagine della liberazione di Bologna, 21 aprile 1945

La questione centrale, dalla guerra di liberazione in poi, è l’idea di “riscattare” l’Italia. L’idea stessa della patria entrava in crisi, con tutto il suo portato di cardini e valori – la visione fascista di grandezza, potenza e conquista. Per i combattenti antifascisti “patria” s’identificava con il concetto di “libertà”, «con i valori che le si connettevano in un concetto che, in quanto tale, non era facile far passare nelle coscienze, trasformandolo altresì in una sorta di mito unificatore»[10]. Come affermano Forgacs e Gundle:

La nazione fu il tema centrale nella transizione dal fascismo alla repubblica: durante la guerra civile degli anni 1943-45 sia i partiti antifascisti sia i difensori a oltranza del fascismo si appellarono all’idea di patria e rivendicarono il ruolo di difensori legittimi dei più profondi interessi della nazione, richiamandosi alle figure e alle tradizioni del Risorgimento [11]

Nel biennio 1944-45 si indica comunemente la fine della guerra civile ed internazionale e l’inizio dei tentativi di ricostruzione del paese, sia materiale che ideologica. L’impianto nazionalista di tipo fascista entra in crisi, legandosi alla frattura sociale e politica, così da far nascere una reazione forte contro i suoi principi. Nell’ambito giuridico la contestazione si colloca soprattutto nella riformulazione di un’importanza dell’individualità soggettiva, opposta allo Stato totale. Si creano dunque i presupposti di un rinnovamento delle basi della cittadinanza, recuperato poi dalla carta costituzionale: un “restauro” della società che i costituzionalisti erano portati a volere, nel momento in cui decade il concetto di nazione sia liberale che fascista.

Il rapporto Stato-individuo nella Costituzione

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La prima seduta dell'Assemblea Costituente, 25 giugno 1945

L’impianto cresciuto agli inizi degli anni Trenta e culminato alla fine dello stesso decennio, trova un indice di frattura negli anni Quaranta. In questo decennio l’incrinatura dei rapporti tra monarchia e fascismo gioca da motore scatenante per una revisione dei presupposti totalitari. La frattura viene accelerata dai problemi emersi in merito alla compatibilità del nuovo assetto fascista con lo Statuto albertino[12]. A far leva nel dibattito interno alla giuspubblicistica è il principio della legalità e del soggetto individuale, posto in risalto – fra gli altri – da Pietro Calamandrei. Per quest’ultimo esiste un forte nesso fra la libertà e la legalità, un nesso già chiaro nelle costituzioni settecentesche e nel pensiero dei filosofi illuministi. È con la sottolineatura di questo nesso che sorgono i primi tentativi di una riformulazione della persona come depositaria di diritti specifici[13].

La discontinuità del rapporto Stato-individuo diventa un punto centrale per definire una rottura con l’impianto di regime. L’esito di tale tentativo si ritrova nell’art. 2 Cost.[14]. Il portato della reazione al fascismo s’identifica con la formulazione del principio personalista, convergenza del pensiero di teorici del diritto come Calamandrei e Mortati nonché del punto di vista dottrinale del gruppo dossettiano e di La Pira: «è appunto il tema del soggetto e dei suoi diritti che campeggia nei dibattiti che nella commissione dei 75 e nell’assemblea preparano la redazione della prima parte della carta costituzionale»[15]. Così il tema della persona diventa punto d’incontro tra le diverse componenti, proprio per il suo carattere di reazione alla retorica di regime: nelle parole di Togliatti la difesa della persona come principio diventa elemento di convergenza «della nostra corrente […] colla corrente solidaristica cristiana», riconoscendo «[la] dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino»[16].

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Giorgio La Pira (1904-1977)

Nel secondo articolo della Costituzione, ampia rilevanza assumono le formazioni sociali, sempre in funzione di una garanzia del soggetto come membro di una comunità, protezione la più ampia possibile «al fine di estendere anche nei rapporti privati la stessa tutela che gli è garantita nei rapporti pubblici»[17].

La ripresa del principio individualistico non è solo reazione alla matrice fascista, ma anche all’individualismo liberale borghese: si può notare uno spostamento tra «una prospettiva politica ed economica dominante fino all’Ottocento, a un’analisi imperniata sul problema sociale, sulla coesione, sui rapporti interpersonali, anziché sull’individuo»[18]. In effetti, se si deve comprendere una sorta di continuità fra il regime fascista ed il sistema democratico, è quello della messa in discussione dell’impianto “atomistico” ottocentesco dello Stato borghese. Una ridefinizione semantica della medesima critica, importante perché chiama a sé il sentimento del nuovo: uno spingersi al futuro dovuto alla mutata struttura della società, verso forme e percezioni differenti dalle precedenti.

Se nel periodo fascista queste spinte propulsive, insieme ai problemi d’insicurezza ed ansietà prodotti dalle trasformazioni della società liberale, vengono sopite attraverso l’autoritarismo ed una forte connotazione della leadership, i costituenti scelgono invece un’altra strada: il sistema partitico. Come già riconosciuto da Fioravanti:

[a]lla base della dottrina istituzionale del partito politico vi è prima di tutto questa “scoperta”, da parte della giuspubblicistica, della società come luogo del conflitto e delle particolarità. […] Non c’è più alcuna formula, come la sovranità della nazione, o del popolo, che possa garantire la riconduzione ad unità di questo complesso d’interessi: le costituzioni del Novecento non possono più, come quelle liberali, presupporre l’unità […] e devono invece ricercarla.[19]

Si fa strada, dunque, quel principio pluralistico che vede l’individuo come centro di una molteplicità di relazioni e aggregazioni sociali. Questo principio regola la società in maniera antitetica all’ideologia fascista di supremazia dello Stato, teso ad un superamento della struttura sociale totalitaria in vista di una più complessa compagine. Si riconosce l’evidenza della molteplicità dei gruppi sociali e delle loro iniziative a fronte di una difesa dei diritti dell’individuo – passando da una concezione di stampo liberale, con le influenze di Georg Jellinek e Santi Romano, ad una ricostruzione via via più completa. Come Biagi Guerini spiega, poi:

Il recupero della spontaneità dei gruppi che questa interpretazione propone fornisce una visione ancora più ampia del significato che comunemente si attribuisce al termine “pluralismo” ed evidenzia in tutta la sua complessità le difficoltà che si incontrano nel tentativo di raggiungere il necessario contemperamento tra gli interessi settoriali di cui il gruppo è portatore, e gli interessi che fanno capo all’intera collettività nazionale.[20]

Il partito ed il pluralismo democratico

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Il partito totalizzante diventa ora un insieme di partiti nel nuovo contesto “pluralistico”[21]. È con il partito, infatti, che si attua il passaggio alla democrazia, «tramite il quale ai “legami” sociali tradizionali, locali, si sostituiscono i nuovi legami, impersonali e informali, tipici della società moderna»[22]. La nuova natura pluralistica del partito ha profonde radicazioni non solo nelle teorie giuridico-politiche, ma anche nella retorica antifascista dei partiti. Bisogna ritornare qui al periodo che si apre con l’8 settembre 1943, «quando una nuova Italia nacque contrapponendosi al modello totalitario fascista nonché all’idea di nazione come tutto»[23]. Non è solo l’Italia ad avvertire un cambiamento, ma è l’Europa tutta che, col cambio di alleanze sfociate nella pace di Yalta, vede una riconversione delle posizioni dell’anteguerra:

Una situazione rispetto alla quale tutte le diagnosi e le parole d’ordine del periodo tra le due guerre risultavano insufficienti. È fuorviante pensare che le collaborazioni di governo con finalità “costituenti” sorte in vari paesi (Francia, Italia) sulla base e come prosecuzione dell’alleanza antifascista che aveva sconfitto l’Asse fosse una sorta di prosecuzione dei “fronti” anteguerra. Era una pagina nuova, qualcosa che era nato nella lunga e pesantissima battaglia condotta insieme, dopo la lacerazione del 1939-1941. [24]

A guerra conclusa è dunque necessario definire i presupposti di società nuova, che si andava mano a mano costruendo, e dove ancora permanevano quei problemi che il fascismo aveva pensato di poter risolvere. È qui che si colloca la funzione basilare del partito politico, e cioè di superare una sovranità popolare vaga, non più identificata soltanto come “nazione” o “popolo”, ma come una rete d’interessi diversamente organizzati. Per Togliatti, ad esempio, all’interno di un sistema democratico era il partito a dover «organizzare, disciplinare e dirigere» non solo le masse, ma anche le istituzioni di rappresentanza, aggiungendo che «nessun partito, oggi, qualunque sia, può affermare di possedere le qualità e le capacità di reggere da solo le sorti del Paese».[25]

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Palmiro Togliatti (1893-1964)

La questione importante per il funzionamento del sistema democratico è la capacità dei partiti a riconoscersi reciprocamente come depositari di valori e contenuti, per quanto diversi fra loro, capacità mancata nell’Italia liberale come in quella fascista. È stato Chabod il primo ad affermare, nel 1950, che la nazione italiana si era ripresa con la Resistenza, ed ora stava imboccando gradualmente la strada dei partiti di massa. La “svolta di Salerno” del marzo 1944, diventa dunque il punto simbolico di un accomodamento fra le diverse parti[26]. Alla prospettiva togliattiana di compromesso fra i partiti, per lui unica strada possibile di mantenimento d’«unità materiale e morale della Nazione»[27], si aggiungono però le difficoltà di accettazione della struttura di partito.

La DC, ad esempio, era avversa alla dimensione del partito in quanto complesso totalitario che esercitava la sua funzione «laddove il cristiano traeva già la sua “ideologia” della Chiesa», punto di vista condiviso da Gonnella, Moro e De Gasperi[28]. Va detto che anche all’interno del partito comunista si trovava difficile conciliare la retorica dell’unità nazionale con la realtà politica[29]. Se però bisogna trattare il problema con i dovuti distinguo, è indubbio che i due maggiori partiti, sotto la guida di Togliatti e De Gasperi, hanno funzionato da matrice d’identità collettiva. Questa funzione sembra però essere più una sorta di palingenesi interna, di non semplice accettazione nel primo periodo di formazione del sistema partitico, scaturita dalle elezioni del 1948 e radicalizzatasi nel contesto internazionale degli anni Cinquanta. Come afferma Bodei:

[a] causa dell’intrinseca debolezza delle tradizioni democratiche in Italia e del fatto che il partito di massa si è qui sviluppato sotto l’egida del fascismo […], i partiti rappresentano in questa fase il principale sostegno dell’identità collettiva: la divisione delle memorie e della “patria” stessa (nelle due entità statuali del Regno del Sud e della Repubblica sociale Italiana dal 1943 al 1945) ha infatti lasciato i cittadini privi di riferimento autorevoli e unitari. […] il PCI e la DC, si riferiscono a comunità ideali di raggio totalizzante, che inglobano e trascendono in sé la “patria” ossia, rispettivamente, all’“internazionalismo proletario” e all’ecumenismo cattolico quali antidoti al “sacro egoismo” nazionalistico.[30]

Tra la sensazione di una patria “martoriata”, il senso d’appartenenza a movimenti contrastanti fra loro – eppure sempre operanti su scala mondiale – «la politica italiana diventa lotta tra “agenzie politiche” contrapposte»[31]. In sintesi, la fine dello stato totalitario fornisce spazio ideologico per la nascita dei “partiti etici”, nonché della “Chiesa etica”.

In fin dei conti, la metamorfosi storica ha spostato l’asse dello scontro da una frattura fascismo-antifascismo ad una lotta tra l’antifascismo comunista e quello centrista. Dicotomia in cui rientra anche la frattura tra comunismo e sinistra liberal-democratica e socialista, perché, mano a mano che si avviava il processo di normalizzazione politica, il movimento d’opposizione al fascismo (per il caso qui studiato al fascismo in quanto precisa struttura statale-amministrativa) viene assorbito dalla guerra fredda:

[n]ella situazione che, dopo il 1947, con la tragedia cecoslovacca, con l’estromissione del Partito comunista dal governo e con la conseguente rottura dell’unità antifascista, si venne via via determinando, il conflitto non poteva essere se non aspro. E deve riconoscersi che, mentre quello svolgeva le sue fasi, non solo la politica democratica e azionista conobbe una grave sconfitta, ma anche, nelle sue varie e non convergenti forme, la cultura a cui quella attingeva.[32]

La politica dei partiti (più che altro dei due maggiori partiti di massa) sarà dunque il sistema entro cui verrà pensata la politica stessa; riassumendo molto il concetto, si recupera parte del sistema parlamentare liberale e parte della concezione partitocentrica di regime. Una struttura derivata da un lungo periodo di crisi istituzionale e civile, che incontra certo obiezioni sia a sinistra che al centro. Non a caso forti saranno le critiche a cui andrà incontro anche la stessa Costituzione, a partire da Dossetti e Mortati, deputati democristiani. Ad esempio, nelle parole di quest’ultimo:

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Costantino Mortati (1891-1985)

l’impalcatura parlamentare e burocratica dello Stato ereditata dal passato è rimasta sostanzialmente immutata e si dimostra incapace di svolgere i nuovi compiti che pure sono stati ad essa attribuiti, ciò con effetti disastrosi per il raggiungimento delle mete che si sono indicate […] Al nuovo Stato occorrono nuove forme. Ad un Parlamento politico che deve dare le direttive generali nel campo economico devono associarsi organismi rappresentativi capaci di concretare tali direttive e di svolgerle nei vari settori. È qui che potranno avere vaste possibilità di utilizzazione le categorie professionali e […] le corporazioni […] ma ciò solo dopo che si saranno smantellate le posizioni legate alla appropriazione capitalistica dei mezzi di produzione. [33]

Posizione che però non troverà conferme all’interno della DC, anche per le scelte liberiste del partito. Concludendo, in effetti, si può parlare di una scelta non scontata, relativamente alla forma istituzionale partitocentrica che prenderà la Repubblica.

La questione è anche sociologica e culturale, mentre qui si sono voluti vedere in qualche modo i presupposti politico-giuridici del cambiamento, letti alla luce della frattura dello stampo nazionalistico fascista. In sintesi, la fine dello stato totalitario non si risolve con un vero e proprio movimento di rottura, ma si ereditano pezzi della struttura di regime. Fatto per nulla nuovo, ma che stride ancora di più di fronte ai cambiamenti sociali dovuti alle trasformazioni economiche e di massa, oltre che ai processi di modernizzazione ad esse connessi. Processi iniziati già negli anni Trenta, ma sempre più incalzanti negli anni del secondo dopoguerra.

 

[Bibliografia]

 

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Note   (↵ returns to text)
  1. Per una panoramica del rapporto tra forza e diritto, e tra persona e diritto, v. Mario Cattaneo, Diritto e forza, un delicato rapporto, Cedam, Padova 2005; M. Cattaneo, Persona e Stato di diritto, Giappichelli Editore, Torino 1994.↵
  2. Paolo Grossi, Pagina introduttiva, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, p. 2.↵
  3. Il concetto di “guerra civile” è stato ampiamente dibattuto e criticato nell’ambiente storiografico ed è stato affermato per la prima volta da Claudio Pavone, nel 1991.↵
  4. Simone Neri Serneri, “Guerra civile” e ordine politico. L’antifascismo in Italia e in Europa tra le due guerre, in Antifascismo ed identità europea, Carocci, Roma 2004, p. 96-97.↵
  5. Ivi, p. 82.↵
  6. Ibidem.↵
  7. Ivi, p. 81.↵
  8. «Ciò accadde allorché fece della violenza fino ad allora usata nel conflitto sindacale e politico locale – il terreno di nascita dello squadrismo – la chiave di volta di una strategia di ristrutturazione complessiva del sistema politico-istituzionale», ivi, p. 84.↵
  9. «L’antifascismo è stato, per alcuni anni molto creativi, sul piano istituzionale, il terreno d’incontro tra le culture politiche che erano riuscite a sopravvivere al fascismo perché avevano scelto di lottare contro di esso, col comune proposito di non rimettere in essere le vecchie “democrazie liberali”, levatrici del fascismo. […] La nozione di antifascismo viene dilatata, da concetto negativo (rifiuto) a concetto propositivo. L’idea di fondo è che nella società italiana vi sono forze, gruppi di pressione, correnti più o meno “carsische” che spingono potenzialmente verso esiti e verso scelte conformi agli interessi e agli obiettivi per cui il fascismo era sorto; e che una lotta di lungo periodo contro tali forze, nel nuovo quadro costituito dalla presenza, insieme, nei governi post-bellici, delle forze che avevano combattuto il fascismo, potesse, nel suo stesso farsi, trasformare la società italiana in senso progressivo», Luciano Canfora, La democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, Bari 2008, p. 255.↵
  10. «La crisi riguardava l’idea stessa della patria: come si dovesse concepirla, e chi ne fosse il traditore, l’antifascista che su di essa innalzava la libertà, o il fascista che l’aveva spenta. […] A rendere più acuto il conflitto di queste due opposte idee era inoltre l’opposto processo, di semplificazione e involgarimento, da una parte, di complicazione e intellettualizzazione, da un’altra, che il senso della patria, e il relativo “concetto”, subivano nella coscienza del paese. Per il fascismo, “patria” aveva significato, e più che mai significava nel suo estremo periodo, grandezza, potenza, conquista, da ottenere con qualsiasi mezzo, contro tutto e contro tutti […] Per coloro che lo combattevano, e lo avvertivano come esso stesso oltraggio recato alla dignità della nazione italiana, questa non poteva significare se non libertà, con i valori che le si connettevano in un concetto che, in quanto tale, non era facile far passare nelle coscienze, trasformandolo altresì in una sorta di mito unificatore», Gennaro Sasso, Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 1/2005, pp. 11-12.↵
  11. David Forgacs-Stephen Gundle, Cultura di massa e società italiana: 1936-1954, Il Mulino, Bologna 2007, p. 48.↵
  12. Fulco Lanchester, La dottrina costituzionalistica italiana tra il 1948 e il 1954, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, p. 753.↵
  13. Cfr. P. Grossi, Scienza giuridica italiana, un profilo storico 1860-1950, Giuffrè Editore, Milano 2000, pp. 278-280.↵
  14. «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», art. 2 Cost.↵
  15. Pietro Costa, Lo Stato totalitario: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, p. 168.↵
  16. Palmiro Togliatti, Intervento del 9 settembre 1946, in La costituzione della repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit. in ivi, p. 172.↵
  17. Roberta Biagi Guerini, Famiglia e Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1989, p. 74.↵
  18. «Ora – osserva Nisbet – tutto questo è strettamente correlato al problema della leadership, perché l’interesse per la leadership, oggi così pronunciato, è una manifestazione dello stesso atteggiamento intellettuale che contiene l’interesse per i problemi di associazione e dissociazione», M. Salvati, Cittadini e governanti, la leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Bari 1997, p. 22.↵
  19. Maurizio Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano: La costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, Il Mulino, Bologna 2004, p. 74.↵
  20. R. Biagi Guerini, Famiglia e costituzione, op. cit, p. 54. O ancora: «La cesura fondamentale rispetto al passato liberale e fascista era rappresenta dalla rottura con le concezioni autoritarie dello Stato che vedevano i diritti fondamentali come un riflesso e l’affermazione della centralità della persona umana sia come singolo sia come associato all’interno dell’ordinamento», F. Lanchester, La dottrina costituzionalistica italiana tra il 1948 e il 1954, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, p. 762.↵
  21. Soprattutto nell’analisi di Mortati, cfr. P. Costa, Lo stato totalitario, op. cit., pp. 173-174.↵
  22. Mariuccia Salvati, Cittadini e governanti, la leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 16.↵
  23. Salvatore Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica, 1946-1978, Donzelli, Roma 2004, p. 4.↵
  24. L. Canfora, La democrazia, op. cit., p. 254.↵
  25. P. Togliatti, Discorsi parlamentari, Camera dei deputati, Roma 1984, vol. I, cit. in S. Lupo, Partito e antipartito, op. cit., p. 32.↵
  26. Ivi p. 31.↵
  27. Discorso all’Assemblea costituente del 24 giugno 1946, cit. in S. Lupo, Partito e antipartito, op. cit., p. 35.↵
  28. S. Lupo, Partito e antipartito, op. cit., pp. 32-34.↵
  29. Cfr. ivi, pp. 36-37.↵
  30. Remo Bodei, Il noi diviso: ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998, p. 21.↵
  31. S. Lupo, Partito e antipartito, op. cit., p. 22.↵
  32. G. Sasso, Guerra civile e storiografia, op. cit., p. 18.↵
  33. Costantino Mortati, in Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, Atti del Convegno Nazionale di Studio, 12/14 novembre 1951, Roma, Studium 1961, p. 178, cit. in P. Grossi, Scienza giuridica italiana, op. cit., p. 295.↵
    • ROBERTA BIAGI GUERINI, Famiglia e Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1989
    • REMO BODEI, Il noi diviso: ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998
    • LUCIANO CANFORA, La democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, Bari 2008
    • MARIO CATTANEO, Diritto e forza, un delicato rapporto, Cedam, Padova 2005
    • MARIO CATTANEO, Persona e Stato di diritto, Giappichelli Editore, Torino 1994
    • ALBERTO DE BERNARDI – PAOLO FERRARI (a cura di), Antifascismo e identità europea, Carocci, Roma 2004
    • DAVID FORGACS – STEPHEN GUNDLE, Cultura di massa e società italiana: 1936-1954, Il Mulino, Bologna 2007
    • PAOLO GROSSI, Scienza giuridica italiana, un profilo storico 1860-1950, Giuffrè Editore, Milano 2000
    • MAURIZIO FIORAVANTI, Costituzione e popolo sovrano: la costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, Il Mulino, Bologna 2004
    • SALVATORE LUPO, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica, 1946-1978, Donzelli, Roma 2004
    • PAOLO MACRY, Gli ultimi giorni, Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009
    • MARIUCCIA SALVATI, Cittadini e governanti, la leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Bari 1997
    • STEFANO BATTENTE, Il processo di nation building in Italia. Recenti interpretazioni storiografiche (1997-2007), in «Storia e futuro», 15/2007, http://www.storiaefuturo.com/it/numero_15/percorsi/7_nation-building-italia~1124.html
    • PIETRO COSTA, Lo Stato totalitario: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, pp. 61-174
    • PAOLO GROSSI, Pagina introduttiva, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, pp. 1-5
    • FULCO LANCHESTER, La dottrina costituzionalistica italiana tra il 1948 e il 1954, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, pp. 750-785
    • GENNARO SASSO, Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 1/2005, pp. 5-41

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