“Flavio, dammi retta. Se segui i miei consigli vedrai che non avrai sorprese.”
“Ma a me le sorprese piacciono.”
“Voglio dire che non avrai problemi, che non ti farai fregare.”
“Guarda che io sono un disastro, se riesci a impedire che mi freghino ancora non sei solo un genio… sei un mago.”
“Innanzitutto, non prestare mai soldi a nessuno…”
“Eh… mi sa che per quello è un po’ tardi. L’altro giorno…”
“Non li rivedrai più: ormai sono soldi persi.”
“Lo so.”
“E poi attento alle ragazze: qui le donne sono molto, molto più furbe degli uomini. Vacci a letto se vuoi, ma non farti incastrare.”
“Mi sa che è un po’ tardi anche per quello.”
“Lasciamo perdere…”
Oggi non avevo affatto previsto alcun incontro. Pensavo di fare quattro passi per il centro di Casablanca, perdermi – come al solito – tra le vie ricche di negozi, trovare un regalo di compleanno per la mia amica e tornare in camera dopo pranzo.
Dopo aver mangiato un panino con tonno e insalata accompagnato da un frullato di avocado, mi sono seduto su una panchina in un parco a due passi da Place Mohammed V, nel convulso centro della città magrebina. Michele mi si è seduto accanto dopo avermi salutato con cortesia in perfetto francese. Solo quando ha iniziato a parlare al telefono ho capito che si trattava di un altro profugo italiano che ha ritrovato una dimensione esistenziale lontano dall’amata patria. Così quando ha accennato distrattamente alla bella giornata di sole, non mi sono saputo trattenere dal rispondergli in italiano.
“Ah, un connazionale! Sei appena arrivato? Se posso fare qualcosa per aiutarti…”
Classe 1947, Michele conosce il Marocco meglio dei marocchini. Piena espressione della nostra brillante affabilità, è amico di tutti e aiuta chiunque, sempre sereno e disponibile, parla perfettamente il francese e se la cava anche con il dialetto locale dell’arabo. Ha viaggiato in lungo e in largo e alla fine è finito a Casablanca, simbolo di un Paese in bilico tra lo sviluppo e il decadimento, tra la modernità e la morsa della tradizione islamica.
“Quando ho tempo vengo sempre qui e mi siedo di fronte a mio cugino…”
Il cugino è Luciano Tadiotto, il tecnico italiano morto nell’attentato del 2003 che oltre al cugino di Michele ha falciato altre quaranta vite e fatto oltre cento feriti. Era la prima volta che il terrorismo internazionale colpiva il Marocco, dopo le stragi in Arabia Saudita e Cecenia. Cinque bombe rivolte contro obiettivi occidentali ed ebraici, cinque fendenti contro la serenità di un popolo pacifico e ospitale che sin dalla sua indipendenza ha vissuto in relativa tranquillità, preoccupato più di non dispiacere il monarca-dittatore che di ciò che accadeva nel resto del mondo arabo. Cinque bombe e nessuna rivendicazione: un’altra scossa al sistema destinata ad essere interpretata dai media secondo le inclinazioni del momento, con l’unico risultato di ribadire ancora una volta che da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi.
“Michele, ma come sei finito in Marocco?”
“Facevo il geologo, il mestiere più bello del mondo. Partivo ogni volta con la mia sacca, la tenda e la piccozza. Ho cercato cave di minerali in tutto il mondo, e poi rivendevo i diritti di estrazione alle ditte locali. Qui ho trovato ospitalità e un bel clima, ma negli ultimi vent’anni il Marocco è peggiorato molto, soprattutto Casablanca. È anche colpa nostra, abbiamo deturpato molto.”
Io lo ascolto e penso alle persona incontrate finora, a Casablanca e a Rabat, ai sorrisi gentili e alla disponibilità di chi fermavo per strada in cerca di indicazioni, ai modi pacati di chi mi ha invitato a mangiare a casa sua. Però so che Michele per molto versi ha ragione, e Casablanca è l’esempio perfetto dell’incerto procedere del Marocco sulla strada della modernità.
La città più grande del Paese è anche la più pericolosa. Da anni si parla di un’organizzazione criminale nota come Tcharmil No Caramel – “tcharmil” sono le spezie usate per le salse piccanti e quindi il nome significherebbe grosso modo “piccante, non dolce” – ma dalle confuse notizie apparse sui giornali non si capisce bene se la loro identificazione sia il frutto di una paranoia diffusa o se si tratti effettivamente di un movimento ben organizzato a cui verosimilmente attribuire la maggior parte degli omicidi e delle rapine che avvengono in città. D’altra parte la stampa marocchina appare troppo spesso come una lettura con cui passare il tempo sul tram più che una fonte di informazione attendibile, stretta com’è nella morsa della censura statale.
Quando il re è in città – si dice che Casablanca sia la città preferita della moglie, la principessa Lalla Salma, amante dello shopping e dei lussuosi ristoranti del centro – pare che i controlli si facciano più capillari, le forze di sicurezza si distribuiscono su tutto il territorio metropolitano e i malintenzionati si trattengono dal destare troppo l’attenzione. Eppure nessuno consiglierebbe ad uno straniero di andarsene in giro da solo di notte per i quartieri periferici.
Ma Casablanca è anche una città animata da una gioventù allegra e cordiale, una generazione di ragazzi benestanti educati negli istituti privati, nelle scuole francesi e nelle università europee che la sera bevono birra e ballano, si baciano di nascosto sulla spiaggia – guai a farsi sorprendere dalla polizia – e si rivolgono con curiosità e ospitalità agli stranieri di passaggio. È una città vivace e piena di speranze, certo non un paradiso tropicale, ma la sua ingombrante presenza è senz’altro una sfida allettante per chi cerca un incontro con la complessa società marocchina.
Intanto Michele si occupa del suo chai alla menta. Dalla teiera lo versa nel bicchiere, poi di nuovo nella teiera. Ripete l’operazione finché non è convinto di averlo rimescolato per bene. Poi ne assaggia appena un sorso e aggiunge due zollette di zucchero. Ora è pronto. Un perfetto tè marocchino.
Poi si gira verso di me, che il tè l’ho già finito da un pezzo senza rimescolarlo né aggiungere zucchero. “Bah…”
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