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trasloco

Creato il 18 ottobre 2014 da Gaia

Chiedo scusa se interrompo temi seri con un messaggio commerciale, ma sto traslocando e, in questo momento, gli scatoloni dei miei libri costituiscono un peso, per cui ho deciso, nel caso potesse fare un po’ di differenza e qualcuno fosse indeciso se comprare un mio libro o meno, di offrirli per l’ultima volta in vendita ai prezzi scontati che si trovano qui – con spese di spedizione comprese, tranne che per le poesie se ordinate da sole (+1,50). Dopo di che inizierò a vendere i miei libri al prezzo pieno di copertina, per il semplice motivo che altrimenti non riesco a coprire i costi. Certo, i libri si possono trovare scontati su siti come IBS, e se preferite questa modalità io non mi offendo; in teoria, il vantaggio di comprarli da me potrebbe essere il fatto di avere una dedica, ma io non me n’ero accorta finché qualcuno non me l’ha fatto notare. Forse non dovrei fare pubblicamente questo genere di affermazioni, ma non riesco a capire il discorso delle dediche. Non fraintendetemi: alle presentazioni le faccio sempre se mi viene chiesto e le faccio volentieri, e ho anche un timbro personalizzato fatto da una mia amica con una serie di simboli che lei associa a me, e lo uso più volentieri ancora. Io stessa, in passato, sono andata in giro a chiedere autografi, ma ora provo un certo distacco nei confronti della cosa e addirittura fatico a capirla. Un conto è una dedica personalizzata, in cui l’autore scrive qualcosa di preciso a una persona precisa (e anche queste mi mandano in crisi, perché spesso vedo che le persone si aspettano qualcosa di diverso e io non riesco a scrivere secondo le aspettative altrui), ma che significato hanno un semplice nome con firma sulla prima pagina di un libro? È un trofeo che dimostra un contatto ravvicinato con un autore? Un feticismo? Un modo per aumentare il valore del libro nel caso l’autore dovesse avere molto successo?

Comunque, se qualcuno vuole la dedica la farò. Come vedete, i miei tentativi di vendita sono così maldestri da risultare piuttosto tentativi di non vendita. Negli ultimi anni ho scoperto di essere più brava a rifiutare denaro che a chiederne, il che è piuttosto interessante dal punto di vista socio-psicologico, ma qui divago.

Tornando al trasloco: a differenza di molti, forse di tutti, gli amanti dei libri, il mio obiettivo e vanto è possedere meno libri possibile anziché il contrario. Un libro è un peso, un impegno, e come in altri campi della mia vita la qualità viene prima della quantità. Il trasloco è il momento ideale per liberarsi del superfluo, e io sto cercando di liberarmi non solo delle copie dei miei libri in eccesso, ma anche di quei libri che ho, spesso perché mi sono stati dati, ma non ho interesse a leggere o rileggere e non voglio tenere – incontrando l’opposizione degli amici e parenti secondo cui dare via un regalo è una mancanza di rispetto nei confronti di chi te lo ha dato. No, no e no: un regalo dev’essere un gesto di libertà. Se possiamo disporre del ‘regalo’ più importante di tutti, cioè la vita (regalo nel senso che ci viene data e non è possibile guadagnarla), sicuramente possiamo disporre anche di tutti gli altri! Certo, non è bello vedere che qualcuno non vuole ciò che gli hai dato, ma non è peggio sapere che lo tiene controvoglia anziché usarlo per fare contenta un’altra persona? Comunque, la cosa interessante è che ho provato a vendere dei libri su un sito che io stessa consulto spesso, e non ci sono riuscita anche se alcuni dei titoli che offrivo sono bestseller (nota a chi mi avesse regalato libri di recente: quelli li ho ancora :) ). Ci sono rimasta male, non tanto per motivi economici quanto perché il mio ambientalismo mi porta a soffrire quando non riesco a far incontrare domanda e offerta di merce usata e sono costretta a buttarla via. Farò un ultimo tentativo con il Banco Libero di Udine, se non li vogliono neanche lì li butterò nel bidone della carta.

Riguardo di nuovo ai miei libri, ho avuto una discussione con la casa editrice perché ho chiesto se fosse possibile aumentare il numero di parole per pagina. Loro mi hanno risposto che è un problema per gli ipovedenti e un indice di scarsa cura editoriale, mentre io associo alle pagine affollate testi densi e letture voraci, nonché un passato romantico in cui a causa dell’alto costo della carta, probabilmente, si cercava di minimizzarne l’uso. Io voglio risparmiare carta, voglio alleggerire gli eventuali traslochi dei miei lettori, per l’appunto, e voglio imitare i libri che mi piacciono, anziché quelli nuovi che vedo, belli diradati e spesso così poco interessanti… ma, al tempo stesso, non voglio affaticare la vista di nessuno. Se qualcuno avesse pensieri in proposito, sono graditi. I futuri volumi di Che male c’è, in ogni caso, dovranno essere impaginati allo stesso modo. E devono anche, in buona parte, ancora essere scritti, e a questo proposito la decisione di traslocare in un posto senza internet potrebbe finalmente venirmi in aiuto.


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