Io e D’Orrico dobbiamo trovare un accordo.
Per una volta dovrebbe uscire prima la mia recensione e poi la sua, così almeno spetterebbe a lui l’ingrato compito di prendermi a pesci in faccia.
«Mai, nella sua carriera, Giorgio Faletti aveva trovato un tocco così morbido, così preciso, così amaro». O meglio, se questo romanzo avesse una targhetta che ne riporta la composizione, ci troveremmo scritto “30% thriller e 70% fuffa”. Che poi, a ben vedere, anche quel po’ di thriller ha ritmi talmente lenti — morbidi, a sentire D’Orrico — che si fa fatica a individuarlo. E mi stupisce davvero che la fuffa non sia stata colta al volo dall’illustre recensore. Se per D’orrico questo libro è «una questione di contenuti forti e commoventi», io mi ritrovo dubbiosa e colta da sbadiglio già alle prime righe del prologo.
«Quando arrivano loro tutto deve essere a posto.
Loro sono lo Sparviero, il Nero, il Talento, lo Sfaticato. Sono il Tatuato, il Ragioniere, il Bravo Ragazzo, il Puttaniere, il Marito.»
Ci avrei infilato pure Cucciolo, ma forse qualcuno l’avrebbe trovato eccessivo.
Per descrivere Tre atti e due tempi (Einaudi, 2011) basterebbe prendere a prestito alcune righe del libro. Siamo a pagina 9 e mi sarei volentieri fermata lì: «Ci sono parole vuote e discorsi pieni di parole, che sovente hanno lo stesso significato.»
Poi ci sono anche libri scritti in questa maniera, dove «il pensiero è concentrato e diluito, rarefatto e rappreso, noncurante e permaloso».
Trovo molto triste l’idea di un comico prestato al giallo, ma peggio è quando un giallista si intestardisce a imbellettare la letteratura d’evasione e la snatura in un sermone.
Eppure la vicenda narrata si sarebbe prestata ottimamente agli intrighi ad alta tensione. Lo dico nonostante di calcio non sappia alcunché, ma pare che anche Faletti ne sia digiuno. Difatti tra i ringraziamenti spiccano quelli ad Alex Del Piero e Zaccheroni: contributi d’eccezione ma, a ben guardare, i due devono essersi limitati ad amicali pacche sulle spalle, dato che qui il pallone lo si intravede solo per sbaglio.
Servono ben otto pagine di tour itinerante per portarci — in auto col protagonista — a due passi dallo stadio e ci concediamo una sigaretta in sua compagnia mentre il fumo «evade» dal finestrino (pagina 16). A un ritmo così lento, il mio consumo di tabacco è raddoppiato. Vi sconsiglio, quindi, di acquistare una stecca in concomitanza con la lettura del romanzo: vi fareste del male due volte.
L’eroe — un attempato ex pugile ed ex galeotto, ora magazziniere di una squadra di serie B — sfoglia il giornale, dove, stenterete a crederlo, «ci sono delle foto e delle notizie» (pagina 18). Lui, Silvano detto Silver, deve prendere una decisione difficile. Il figlio — Roberto, detto il Grinta — ha venduto l’ultima partita di campionato: l’asso è pronto a fare il lesso, deciso a far perdere la sua squadra e a negarle l’opportunità di assurgere alla serie A.
Il padre si strugge, lui che ha buttato alle ortiche una promettente carriera nel pugilato proprio per due soldi facili e ammette che «per i perdenti non sono mai troppo lunghe le code da mettere fra le zampe» (pagina 20). Le zampe, capite? Perché un perdente si fa di una bestialità manifesta, manco più le gambe gli restano.
La questione si fa torbida e dare uno sganascione al figliolo non basterebbe a riportarlo sulla retta via. Ecco allora che Silver si svela nella sua totale impotenza, nonostante la mole e l’animo da combattente: «Sono rimasto a osservare, immobile in quella posizione, per non so quanto tempo. Forse un’ora, forse un anno, forse per sempre» (pagina 49). Sensazione che ce lo rende simpatico, visto che anche noi stiamo attendendo che succeda qualcosa che giustifichi la recensione di D’Orrico. Spero non dovremo attendere per sempre; intanto, accendo l’ennesima sigaretta.
Ancora una volta vorrei smettere — no, non di fumare —, ma ho promesso questa recensione a Sul Romanzo, o, come spiega Faletti a pagina 92, «forse non sono nella posizione di chi può dire no oppure sono nella situazione di chi farebbe di tutto pur di sentirsi dire dei sì». Magari rientro anch’io in uno dei due casi: al momento mi godo questo scioglilingua e mando in pensione capre e panche.
Tra mille indecisioni e l’amore per il figliol prodigo — tornato in città per un buon ingaggio nella squadra locale, l’amore filiale si ferma qui —, Silver prenderà il posto dell’allenatore, di cui non posso dirvi altro per non sciupare l’unica sorpresa del romanzo. Attorno a lui sfilano i cattivi, gente pronta a «uccidere il calcio e a spolparne il cadavere» (pagina 132). Qui Faletti sembra ricordarsi vagamente di tornare al genere che l’ha reso celebre; purtroppo non dura e il finale è degno di Drive In e delle gag del giumbotto.
Secondo D’Orrico in questo libro «non c’è esibizione, non c’è chiasso». Finalmente posso dargli ragione: in questo romanzo c’è davvero poco, a parte il nome celebre in copertina.
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