In tempi come questi in cui nulla sembra poter resistere alla tentazione di dover venire reinventato, e in cui tablet e touch screen paiono le uniche parole in grado di poter far riaffiorare l’editoria dal pozzo senza fondo in cui è da tempo precipitata, ci sono tre libri in cartaceo che sanno, col semplice uso dell’immaginazione (un’immaginazione artigianale e non necessariamente digitalizzata), riportare nel perimetro del quotidiano un senso forse perduto di creatività.
Il primo l’ho scovato l’anno scorso in piazza Spui ad Amsterdam, nell’American Book Center, una delle mie librerie preferite della capitale olandese: s’intitola “Big Bad City” ed è un inconsueto e sorprendente capolavoro fotografico di Slinkachu.
Slinkachu (il cui vero nome è sconosciuto) è quello che si suol chiamare un urban artist, un creativo di grande talento che in “Big Bad City” ha ritratto persone ed oggetti minuscoli posizionati nei più (in)consueti contesti cittadini.
Come ha fatto giustamente notare il Time, Slinkachu realizza un’opera semplice ma al tempo stesso dotata di un grande potere evocativo: “anche se sappiamo che si tratta solo di piccole figure in metallo non possiamo fare a meno di sentire, in ognuna delle situazioni in cui sono state posizionate, qualcosa dei nostri timori e delle nostre incertezze, in particolar modo la paura di ritrovarci persi e vulnerabili in una grande e indifferente città”.
Slinkachu mette in scena quel senso d’isolamento che molte grandi realtà metropolitane suscitano in chi ci vive: un omicidio sul bordo di una pozzanghera, una famiglia che fa un pic-nic vicino all’immondizia, un uomo sul punto di suicidarsi?, tuffarsi? dall’argine di un immenso fiume. L’effetto che Slinkachu ottiene con le sue fotografie, facendo ogni volta seguire al primo piano il contesto allargato in cui i suoi protagonisti sono stati inseriti (Londra, ma potrebbe trattarsi di una qualunque altra città nel mondo) è insieme straniante e coinvolgente: uno scarto improvviso, un inaspettato unheimlich in cui diviene difficile discernere quale dei due scatti costituisca l’evento ‘familiare’ divenuto improvvisamente ‘estraneo’: siamo noi quelle piccole figure incollate sull’asfalto? E se sì, chi sono i giganteschi esseri che ci camminano, mangiano, corrono, lottano e respirano sopra?
Slinkachu dichara d’essere partito dal pensiero della realtà che esiste ai piedi di tutti noi, ovvero da quella dimensione misteriosa e microscopica che, a nostra insaputa è parte integrante d’ogni esistenza.
Il secondo libro è “Vita da mosche”, un’esilarante e a suo modo tragica rappresentazione di un mondo di mosche in un pianeta disegnato a matita. Magnus Muhr, che ne è l’autore, è un eclettico fotografo svedese che con questi scatti ha creato qualcosa di formidabile: le mosche che compaiono nelle sue pagine sono esemplari comuni di quelle creature che di tanto in tanto troviamo stecchite in qualche angolo del nostro soggiorno. Tutto il resto, invece, è il risultato di sfondi bianchi e tanta, tantissima immaginazione: le mosche di Muhr sono creature come noi, esseri (quasi) umani che vanno in piscina, danzano, suonano, piangono, litigano, scherzano, si sposano, fanno sport, discutono davanti a una bottiglia di vino e suonano la chitarra alla luce di un fuoco.
Più sfogliamo le pagine dell’opera di Muhr e più realizziamo che la nostra maniera d’osservare e considerare queste (spesso) fastidiosissime creature si è inevitabilmente modificata: mosche che sognano, mosche che piangono, che dormono, che manifestano per i propri diritti, che nascono e che muoiono e che, in tutto questo, sembrano essere alla disperata ricerca del senso della propria condizione: “Vita da mosche” l’ho scovato anni fa in uno dei banchetti del Lucca Comics, e da allora non ha più smesso d’apparire e scomparire negli angoli più insoliti della mia casa, suscitando meraviglia e spunti di riflessione in tutti quelli che se lo sono ritrovato tra le mani.
L’ultimo libro è una scoperta di pochi giorni fa, a Mt Eden, uno dei quartieri più vivi e vibranti di Auckland, nella libreria Time Out, in assoluto la mia preferita tra tutte quelle della grande metropoli neozelandese.
S’inititola “Fingerprint Art” e fa parte della collana “Let’s make some great art” dell’autrice Marion Deuchars, illustratrice e designer dalle infinite risorse e dalla multiforme creatività.
“Let’s make some great Fingerprint Art” è un testo per bambini, un volumetto grande come un quadernone e pieno d’idee capaci d’accendere la scintilla dell’immaginazione anche nei più piccoli ed inesperti artisti: “tutto quello che serve” dice la Deuchairs, “sono le nostre mani, una serie di tamponi d’inchiostro, qualche matita, un foglio e uno straccietto umido con cui pulirci i polpastrelli”.
Con le sue parole la Deuchairs ci ricorda che le nostre impronte non solo sono uniche e irripetibili, ma anche in grado di creare qualunque cosa, pensiero, storia o fantasia che abbia appena attraversato la nostra mente: uccelli, leoni, renne, palazzi, città, boschi, alieni, mostri incredibili dalle forme più improbabili.
Questo di Marion Deuchars è un libro che ha a che vedere con la nostra capacità di trovare alternative alla maniera tradizionale di vedere e rappresentare il mondo, ma al tempo stesso è un invito all’esplorazione di noi stessi e della nostra relazione con gli altri: impronte digitali per realizzare ponti, case, indovinelli, racconti: forme all’interno delle quali far agire esseri umani e animali. Anche qui, come nei due testi precedenti, realtà e immaginazione, e quotidianità ed insolito concorrono a rincreare quel senso della vita come magia e riscoperta continua a cui crescendo (e vivendo) abbiamo purtroppo finito per disabituarci.
“Big Bad City”, “Vita da mosche” e “Fingerprint Art” sono tre opere che dicono molto più di quanto facciano intendere, e che nel loro equilibrio tra digitale e materico (“Vita da mosche” è divenuto libro dopo essere stato ‘blog’, gli altri due hanno siti internet di riferimento) dimostrano le possibilità e i vantaggi di un rapporto tra ebook e cartaceo, e trovano nell’ambiente di un festival o di una libreria, come nel mare magnum della rete, i luoghi in cui poter provare a metterlo in atto. E questo è un pensiero che da tempo mi attraversa la mente (anche adesso mentre ne sto scrivendo): e cioè che sul passaggio dal cartaceo al digitale si è sentito dire di tutto tranne che (più che gli editori) saranno i singoli testi e le piccole librerie a costituire gli spazi in cui verrà giocata la parte più importante della partita. Se da una parte infatti pare che le grandi catene stiano arretrando o addirittura chiudendo, dall’altra le piccole realtà indipendenti stanno sopravvivendo, si stanno rinnovando, stanno, in alcuni casi, perfino rinascendo: in fin dei conti, pensateci bene, a parte i testi di cui vi ho appena parlato e che vi consiglio d’andare a cercare, non sono forse stati i luoghi in cui li ho trovati ad attirare buona parte del vostro interesse?
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