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Riccardo Raimondo, Il potere dei giocattoli, Sentieri Meridiani, 2012
C’è una dimensione dolce e di malinconia, e di propositi alti in queste poesie che vogliono scaraventare dal balcone i vecchi giocattoli, che abbandonano l’amico del cuore e si lasciano abbandonare, che ragionano e sragionano dentro e intorno alle parole. Fanno i conti, insomma, con l’uscita dall’infanzia e con la responsabilità della lingua. Ma anche col proponimento di una lingua nuova, un po’ fuori dalle righe del mondo eppure dentro al mondo. Quanti neologismi in questi versi! Perché il mondo nuovo è, prima di ogni cosa, quello che il bambino fonda con le sue lallazioni, i suoi suoni/senso, che poi si fanno concetti. Quindi melismi, filastrocche, rintocchi… funambolismo. E ancora: disillusione della crescita, amara ironia rivolta a un’epoca sempre più vuota e priva di significati ancestrali.I riferimenti vanno a un novecento oggi assai poco frequentato: Marinetti, Palazzeschi, Blok… Si sentono le letture. E si sente, sopratutto, il proclama, il manifesto: «Vogliamo rifare l’uomo / che ha fallito miseramente…» così Raimondo si scaglia contro la poesia “settaria”, contro – o incontro – a un voi sociale ormai allo sbando. Preferisco, di questi testi, quelli brevi, con certi passaggi bellissimi come questo: «Conserva lo stupore del mistero, / ma la Parola, / ti prego, / non perderla». Oppure: «Il mio compito è portare / questa luce fraterna / oltre la notte. / Navigare fino all’alba».
Nei testi lunghi, come sempre avviene in una scrittura in formazione, il rischio della retorica è molto alto. Ed è un compito arduo, quello di tenere il respiro lungo, per un giovane poeta, da riservare a una fase più matura della sua parola. Perché Riccardo Raimondo sa già come dire le cose che gli premono con economia di mezzi, che abbandona per proposito, per progetto e utopia giovanile. «Dove sono tutti i bambini / con cui ho giocato?»; «Sii come il bimbo che vaga per la campagna / nella speranza di scoprire / un nuovo colore di lucertola». Io lascerei parlare ancora a lungo questo bimbo, i suoi giocattoli rotti.
Sebastiano Aglieco
***
a mia madre
per questo cuore pieno di giocattoli
***
LA GIOSTRA
Il disordine dei nonni nelle piazze:
giocano a carte, babbeggiano le ore,
ammazzano il tempo
e sognano i sogni giovanili:
le signore,
che s’arrappano nei vicoli
ormai. Sedute all’ingresso della morte
recitano spesso «Padre Nostro».
Civettano per niente
e contano i granelli del rosario,
briciole di vita – ciò che resta,
ricordi nell’armadio:
lenzuola, reggiseni e naftalina.
Porta Uzeda oggi è gremita per la festa:
tutti a fare coccole alla Santa.
Marinella mette l’abito da sera,
leggera, corre subito alla giostra dell’amore
e danza.
***
LA PAROLA
Non lasciare che l’amore per l’imprevisto
ti distolga dalla Ragione.
Sii come il bimbo che vaga per la campagna
nella speranza di scoprire
un nuovo colore di lucertola.
Conserva lo stupore del mistero,
ma la Parola,
ti prego,
non perderla.
***
Ancora oggi stento ad alzarmi dal letto,
come quand’ero bambino
voglio restare nel buco matto dei sogni,
non voglio cadere in un altro mattino.
Voglio e non voglio.
Il mio spirito si fa spaccapietre al primo rintocco
di sveglia, sconquassa la carne,
scuote le budella. Devo.
Devo svegliarmi nonostante me stesso,
nonostante il progresso, e le cose da fare,
l’evoluzionismo del regno animale,
il materialismo e lo smog, i rincari,
la foga degli sconti e degli straordinari.
Devo destarmi, alzarmi dal letto,
nonostante uno scomodissimo sospetto:
ch’io stia ancora dormendo, che sia
Morfeo divertito a scavare solchi nella veglia.
Che sia vero questo mondo che mi sgretola
davanti agli occhi?
***
LA MIA VIA PAL
Dov’è finita la mia vita? S’è disciolta, è scappata.
Rincorro il passato, vado lontanolontano,
fra una canzone di Bersani
e il succo fatto con le arance del nonno,
e i panini colla frittata della nonna, e le pere piccolepiccole
e l’aiuola infiorata dove brillavano i soldatini,
all’ombra d’alte fronde,
fra le raudi-incantesimi di Toro Seduto.
E chissà dov’è finito Birillo il cane,
il compagno di tutta una vita,
la speranza di tutto quel mondo fatto di niente,
di spionaggio internazionale,
combattuto con la spada di legno
e le fionde a difesa dei bastioni di canne,
degli alberi-castelli presi per vendetta
al richiamo dei venti originari
che squillano l’amore il viaggio e la rapina.
Dov’è Birillo, che abbaiava alla mia bicicletta?
Dov’è la campagna vergine?
La strupravamo con la nostra fantasia feroce,
dov’è la quercia-casabase,
dove sono le radici di quei giorni?
Dove oggi grattano le falde
gli spurghi delle villette a schiera?
Dov’è Ruben, piccolo solitario amico,
dov’è la bambina bellissima che di tanto in tanto
mi appariva dolcissima creatura, dove sono
i Gemelli, compagni di giochi e di botte,
dov’è la fonte di tutte le mie fantasie,
il casotto dei miei giocattoli e la tenda dei pellerossa?
S’è asciugata la pozza stagnante, gigante
- dove cacciavamo,
noi paladini di campagna, i nostri draghi pazzi,
e l’imprigionavamo nelle bocce in vetro,
dietro l’etichetta delle rane -
precipitata come una manna di pioggia
sulle fondamenta d’uno scheletro di villa abbandonato,
la nostra Camelot marittima,
contrada Grane, e a Pozzallo.
Dove sono tutti i bambini
con cui ho giocato?
***
a tea falco
CIO’ CHE RESTA
C’è qualcosa che lega
il verso e l’istantanea, la trama dei ricordi
e la teoria dei passi nella danza del granchio,
le impronte dei salti del coniglio e l’accapo del poeta…
è la luce che s’appiccica sul fogliopellicola
nell’istante quando tutto non è ancora:
tracce di vita, ciò che resta.