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Laura Liberale è nata a Torino nel 1969 e vive a Padova. Studiosa di religioni e filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente, dopo la laurea ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Studi Indologici.
Dal 2006 tiene corsi e seminari di scrittura creativa. Autrice di saggi indologici e insegnante, ha ottenuto riconoscimenti in premi di poesia e narrativa. Suoi testi sono apparsi su riviste e antologie.
Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo Tanatoparty (Meridiano Zero) e la silloge poetica Sari – poesie per la figlia (d’If); nel 2011, la raccolta di poesie Ballabile terreo (d’If); nel 2012, il romanzo Madreferro (Perdisa). È inoltre tra gli autori di Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012).
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E dunque lei muore e un altro mistero s’ingrotta
di donna consanguinea, di stele che non aprì alfabeti
macigno piuttosto, pietrame al collo
giù a fondo nel rimosso, nell’indecifrato.
Queste le femmine del mio lignaggio.
Finisce in piaga la carne che non rilasciò i segreti
il tallone che la pietà non mosse
(allora non potevo chiedere, soltanto respingere le mani)
e la consunzione, la consunzione non è che la punta
del nostro pauroso iceberg familiare.
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Ancora stai chiedendo di nutrirla,
di celebrare il rito della cura?
È un’ara il tavolo del bar, tu scava
due solchi e riempili di acqua e latte,
mungiti gli occhi, poni a far barriera
zolle di terra, ai piedi del palazzo
erigi il tumulo, l’orto concluso,
liba nel sole che strina i contorni
nella misura della primavera.
Sono soltanto la tua bambina.
È un controluce, invece, la santa,
lei, il mistero fitto del trapasso
nell’età, toglie la voce, intimidisce
gli occhi, li fa abbassare rasoterra,
“Non mi fotografare, non ne ho voglia”,
dice, come se in quest’indolenza
si celasse la coscienza del sacro,
che è ciò che in lei diviene, il trasformante.
E allora tu ritirala la mano,
rinuncia al simulacro. Ecco l’icona.
Urbino, un tredici di marzo
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Galactopatia
Per trovarci qualcosa dovresti infilarle
nelle due more e più a fondo
sotto i tralci dei dotti
dentro i tuberi ghiandolari,
le tue mani,
fino al duro del dolore.
Qui fuori a fior di pelle
non c’è niente per te.
Terra disseccata, mummificata
– mammificata, se vuoi che tenti un sorriso -
nei giri della benda.
Zampillavo, amore mio che il seno
mi sfiori appena
col rispetto che porteresti a un tempio.
Ma forse è a un tumulo che sai d’avvicinarti
e allora meglio è spiegato il brivido
l’esitazione.
Avvelenato il pozzo della tua bambina
perché mi guarisse il cervello.
Così accostati pure amore,
ma lascia quello spazio
che lasceresti davanti a un cimitero.